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Il genio di Castri incontra Beckett

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Tiberiade Matteis Nel cartellone del Teatro India, fra i pochi ancora attivi nella Capitale, c'è una sfida scenica da non perdere che nobilita le proposte di fine stagione, rischiando però addirittura di passare inosservata. È l'incontro esplosivo e accattivante fra il genio dissacratorio del più ispirato e profondo dei registi italiani, ovviamente Massimo Castri, e l'essenzialità postmoderna di un rivoluzionario, ormai divenuto un classico, come Samuel Beckett. Il territorio dell'inedito confronto, dal momento che Castri non ha mai allestito finora un'opera beckettiana, è l'astratto e concentrato «Finale di partita», meditazione statica e claustrofobica sulla vita e il suo fatale rovescio, in cui il cieco e paralizzato Hamm innesca una dinamica tra padrone e servo con accenni e scontri quasi fraterni all'interno di una stanza che potrebbe corrispondere a una cavità cranica in cui ogni azione risulta semplicemente allo stadio di pensiero. La direzione magistrale nei suoi guizzi imprevedibili, come è nello stile del maestro toscano, dei quattro interpreti Vittorio Franceschi, attore di indubbio e collaudato pregio, Milutin Dapcevic, Diana Hobel e Antonio Giuseppe Peligra, rispettivamente nei panni dei due protagonisti e della coppia degli anziani genitori di Hamm, collocati nei bidoni della spazzatura, assicura una rappresentazione godibile pur nel suo approccio apocalittico e millenaristico che lascia presagire catastrofi passate quanto imminenti. L'autore, nel corso di alcune prove di questo testo allo Schiller Theatre di Berlino ebbe occasione di commentare: «Hamm è il re in questa partita a scacchi persa sin dal'inizio. Nel finale fa delle mosse senza senso che soltanto un cattivo giocatore farebbe. Un bravo giocatore avrebbe già rinunciato da tempo. Sta soltanto cercando di rinviare l'inevitabile fine». Metafora e sintesi della vicenda umana in una disperazione mai rassegnata, il lavoro diventa una riflessione esistenziale urgente e necessaria alle soglie del nuovo millennio che non esclude un'intima sperimentazione sulle possibilità comunicative del teatro nell'avvenire.

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