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Le ricordiamo tutti, queste parole: anche quelli che non erano lì in Piazza Venezia, anche quelli che non stavano incollati alla radio; anche quelli che non erano ancora nati.

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Ricordiamoquella voce metallica; ricordiamo quel volto duro e squadrato, di pietra sotto il berretto nero «alla bulgara». È il volto del nostro delirio d'onnipotenza, delle nostre illusioni distrutte, dei nostri sogni spezzati. Forse, come avrebbe detto il poeta, del nostro inestinguibil odio e del nostro indomato amor. 10 giugno 1940: la piccola Italia che s'illudeva di esser diventata una grande potenza imperiale gettava, a fianco della potente Germania rinata dalle sue ceneri, la sua sfida ai grandi imperi liberali, alle «democrazie plutocratiche e reazionarie dell'Occidente», in un'avventura ch'era «la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l'oro della terra». Può darsi che oggi, rileggendo quelle parole, più d'uno sia colto da un'impressione sconcertante. Quell'«Italia proletaria e fascista» evocata in termini al tempo stesso tanto laconici e tanto retorici non veniva affatto presentata come vittoriosa e potente. Al contrario: essa si metteva dalla parte dei poveri, dei «dannati della terra», degli sfruttati. Dietro al Duce chiuso nell'orbace dalle spalline dorate si profilava ancora e nonostante tutto l'ombra del giovane Benito Mussolini agitatore socialista-interventista: la guerra destinata a rovesciare i destini del mondo, a rovesciare i troni dei potenti e ad esaltare il destino dei diseredati. Una guerra ch'era davvero la prosecuzione di quella del '14-'18, il saldo dei conti ch'essa non aveva saputo chiudere, la reazione contro gli inganni e le ingiustizie della «pace ingiusta» di Versailles. Una guerra il conclamato scopo della quale era la rottura della prigione geopolitica che rinserrava una giovane potenza mediterranea entro il lago mediterraneo sorvegliato dalle due porte di Gibilterra e di Suez, saldamente in mano britannica. Se si considera che l'Italia unitaria era stata fondata, ottant'anni prima di allora, con l'appoggio non disinteressato di una Francia prima e di un'Inghilterra poi che ambivano a piazzare le loro pedine commerciali e portuali in una penisola che, con l'apertura del canale di Suez, sarebbe divenuta un molo mediterraneo importante sulla via degli oceani, l'entrata in guerra del '40 acquista una prospettiva sulla quale di solito non si riflette: quella della definitiva liberazione del paese da un ruolo subalterno nel panorama politico europeo. Il tragico era che tale disegno era destinato a inquadrarsi nel contesto del profilarsi di una subordinazione ancora più forte e tragica: quella alla Germania nazista. Qui l'abile giocoliere Mussolini, che aveva avuto fino ad allora la fortuna e l'abilità di costruire il mito della potenza italiana su una serie di colpi di mano e di bluff ben giocati - l'ultimo dei quali era quello di mediatore degli accordi di Monaco del '38 - si trovava adesso a doversi confrontare con il vero nodo irrisolto della sua politica. Eppure, al di là di quel che voleva far credere e forse alla fine credeva anche lui, non era stata la sua volontà a condurre le cose a quel punto. Il discorso del 10 giugno del '40 va confrontato con quello pronunziato dal medesimo balcone quattro anni prima, il 9 maggio del '36, quello commosso e commovente della fondazione dell'impero. Francia e Inghilterra non avevano digerito l'ingresso dell'Italia - autentico o fasullo che fosse - nel club delle grandi potenze: e avevano commesso, con le sanzioni, l'irreparabile errore di gettare il Duce nelle braccia del suo inquietante emulo ed allievo tedesco. Quello fu davvero l'imperdonabile peccato delle democrazie liberali, l'errore fatale consistente nell'aver rotto l'unità antinazista conseguita nell'aprile del '35 col patto di Stresa: e l'inizio di un Totentanz le tappe del quale furono la guerra civile spagnola, gli ambigui accordi di Monaco, le leggi razziali del '38, il «patto d'acciaio» italo-tedesco del 22 maggio 1939 che all'articolo 3 sanciva l'obbligo per entrambe le parti contraenti ad entrare in guerra se l'altra vi fosse impegnata, il patto di non-aggressione tedesco-sovietico del 27 agosto del '39 che consentiva l'attacco tedesco alla Polonia di cinque giorni dopo. La «non-belligeranza» mussoliniana fu solo una manovra temporizzatrice. Il Duce sapeva bene che l'Italia non era militarmente pronta, e aveva intenzione di protrarre la sua astensione almeno fino al '43. Ma le vittorie mozzafiato di Hitler lo presero di contropiede: tra il maggio e i primi di giugno del '40 la capitolazione dell'Olanda e l'invasione del Belgio, l'aggiramento della Maginot e lo sfondamento della linea Weygand, la vittoria di Dunkerque dove il Führer si era preso il lusso di ostentare generosità e di non annientare il nemico in fuga, gli dettero l'impressione (non peregrina...) che non ci fosse tempo da perdere. La Wehrmacht era alle porte di Parigi: avrebbe potuto continuare il conflitto, con la Francia ormai occupata e l'Unione Sovietica alleata di Hitler? Mussolini si sentì a un passo dal successo finale e contemporaneamente a uno dall'emarginazione disonorevole: se la guerra fosse finita prima del suo ingresso formale in essa, il «patto d'acciaio» sarebbe stato unilateralmente disatteso e il potente alleato lo avrebbe respinto nella condizione di una Svizzera moltiplicata per dieci, e mancatrice di parola per giunta. Gli ci voleva, come cinicamente disse, una manciata di cadaveri per sedere da vincitore al tavolo della pace. E in seguito avrebbe affermato più volte che Francia e soprattutto Inghilterra erano le prime a pregarlo di muoversi in quel senso: la sua presenza avrebbe moderato le pretese di Hitler. Ottantasei anni prima, nel 1854, il Cavour era entrato non meno cinicamente di Mussolini in una guerra che ancor meno riguardava la penisola italica, quella di Crimea, con analogo scopo: sedere al tavolo dei vincitori e compartecipare ai frutti della vittoria. Il Duce decise di cogliere l'occasione e di giocare alla grande quello che sarebbe stato il suo definitivo bluff. Il Cavour ce l'aveva fatta: a lui, andò male. Sappiamo purtroppo bene il resto di quella storia.

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