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Costanzo: «Donai il cuscino alla Patria che chiedeva lana»

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Dunquericordi zero. Ma subito dopo, nel pieno del conflitto, mi rammento di atmosfere, di situazioni. Non di parole, di prese di posizione, di discorsi. Piuttosto, mi racconta della Storia con la s maiuscola che irrompe nella mia storia privata una foto pubblicata sull'Illustrazione Italiana. Ritrae me piccolino, in pantaloni corti, mentre entro nella mia scuola, la Corradini, poi Fratelli Bandiera. Tra le braccia stringo un enorme cuscino, che quasi pare sopraffarmi. Già, a noi scolari facevano portare lana alla Patria». Maurizio Costanzo, classe 1938, torna in un attimo agli anni più lontani, al suo piccolo appartamento nel popoloso quartiere Italia, quello che gravita attorno a piazza Bologna. «Non si parlava mai di politica tra le nostre quattro mura - racconta Costanzo - Mio padre era socialista, impiegato al ministero dei Trasporti. Tutti lo sapevano e lo tenevano in disparte, come un appestato. Anche per questo non riuscì mai a fare carriera. E a noi dovevano bastare le striminzite lirette del suo mensile da travet. Quando diventai abbastanza grande da andare a teatro, beh, i soldi per il biglietto, e per coltivare la mia grande passione, me li guadagnavo facendo la claque». Ma insomma, come vivevate l'avventura della guerra? E l'incupirsi del fascismo? «Ripeto, c'era una sorta di coprifuoco verbale dentro casa mia. Del resto avevamo rischiato di finire tutti ad Auschwitz. E sa perché? Perché papà subito dopo le leggi razziali, nonostante vivessimo in un buco di casa, si mise a nascondere certi suoi amici ebrei. Per fortuna andò bene. A loro, a lui e a noi».

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