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Solo i cani attori salveranno l'Italia

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Quellache sembra una boutade sull'annullamento delle distanze fra cinofili e cinefili, spiega molto dello stato decadente della nostra settima arte. C'è voluta l'evocazione di un maestro delle stagioni d'oro, e un occhio aperto su una natura surrealista e incantata, per sancire il fallimento di troppo cinema tricolore "de denuncia". In Riviera i nostri registi non si lasciano mai sfuggire l'occasione per trasformarsi in comizianti, perdendo di vista la magia del loro lavoro. I francesi ci sguazzano. Quest'anno, privati di Nanni Moretti impegnato a girare una storia su un Papa depresso, si sono dovuti contentare di una lezione morale del professor Bellocchio, che non ha resistito a insinuare come tra Mussolini e il Cav la differenza di fondo sia «la ricchezza personale». La Guzzanti ha affondato i tacchi a spillo sulle macerie del terremoto, ma secondo "Le Monde" il suo pamphlet «manca di rigore, e la sua approssimazione gli si ritorcerà contro», malgrado la pubblicità offerta al suo sedicente "docu-verità" dal forfait di Bondi. Daniele Luchetti, unico italiano in concorso con l'amaro "La nostra vita" non sembra aver entusiasmato più di tanto la critica - «film tonico ma modesto», sempre secondo "Le Monde" - ma l'autore ha sciorinato dichiarazioni come «finché siamo liberi raccontiamo l'Italia alla deriva», mentre i giornalisti stranieri, sempre pronti a mazzolarci, gli chiedevano: «Come e quando il vostro Paese ha cominciato a ridursi così?». Rappresentati da certo cinema, fatichiamo a riconoscerci. A Cannes finiamo umiliati come la Romania di Ceausescu ritratta da Ujica, come l'Iraq tragico di Ken Loach, come l'Algeria insanguinata di Bouchareb. Non se ne può più. Evviva Vuk, che non ci fa fare una figura da cani. Stefano Mannucci

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