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Ora la classe operaia non va più in paradiso

Silvia Avallone, 26 anni

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Vabbè le 50 mila copie vendute in tre mesi, la candidatura allo Strega, ieri il cocktail mondan-letterario in perfetto stile Rizzoli dedicato a lei. Ma insomma Silvia Avallone - ventiseienne di Biella, emigrata a Bologna dove ha preso la laurea in filosofia e tra poco in lettere, pronta a sposarsi, poetessa e ora romanziera con «Acciaio» - non vede l'ora di mollare Facebook e tornare alle sue faccende: «Pulire la casa, studiare, scrivere». La incontro in un ovattato albergo ai Parioli. È arrivata in treno da Bologna. Jeans, riccioli vispi, sorriso disarmante. Sul divano tira su le gambe e le incrocia, come dovesse parlare con l'amica del cuore invece che con me. Si catapulta ad abbracciare Michele Rossi, suo editor Rizzoli. Solare, concreta. Silvia, lei è lontana anni luce dai giovani di «Acciaio». I nuovi proletari senza speranze né ideologia ingabbiati nel condominio-dormitorio di Piombino, dietro gli altiforni della fabbrica. Non sono come loro anche se quella realtà la conosco bene. I miei genitori sono divisi da sempre. Mio padre, napoletano, è andato a vivere a Piombino. Anche Biella è provincia. E io ho voluto raccontare la realtà dei piccoli centri, gran parte del Paese. Alienante. Mancano occasioni, possibilità di realizzarsi. Se si è poveri si è reietti. A me è andata diversamente perché in provincia la mancanza ti fa scattare la voglia di schizzare fuori. Ma mi sostenuto l'affetto dei miei, una scuola efficiente, la lettura. Nel romanzo mare e polvere. Sabbia, salsedine, fuliggine, cocaina spacciata in cortile. I giovani annaspano, i padri latitano, le madri tirano la carretta. Meglio le donne? No. Tranne uno, tutti i personaggi maschili si riscattano perché comunque riescono a voler bene agli altri. Sfuggono alle responsabilità ma trovano un gesto di tenerezza. Il lato buono di ciascuno è sapere di essere vivo e conoscere la partita da giocare. Le donne hanno in più la capacità del sacrificio personale. Lei come l'altro fenomeno Strega, Paolo Giordano. Entrambi al primo romanzo e invischiati in storie desolanti. Ma la letteratura non è come la pubblicità che fa vedere un mondo impeccabile. Immedesimarsi in chi sbaglia rende il valore di quel che è in gioco. La mia è una generazione della stagnazione, dei senza-lavoro, dell'assenza di riferimenti, della rimozione del dolore. La tv è riuscita a raccontarci un'altra Italia, felice, profumata, ottimista. Io prendo sul serio la durezza della realtà rimossa. Negli anni '60 se ne parlava, magari con ironia. Capacità che non ho. Però dico verità. Come ha agguantato Rizzoli? Inviando tre capitoli del libro per un parere. Invece mi hanno convocato a Milano. Succede, a me è successo. Altro che scuole di scrittura creativa. Ho faticato tanto. Un anno per capire come potesse funzionare un romanzo, un altro anno per scriverlo. Molto del successo di un libro viene da titolo. Che spesso è dell'editore. Capitato anche a lei? No. "Acciaio" era fin dall'inizio e ho lottato perché rimanesse. L'editore ne voleva un altro, ma non ha trovato di meglio. Mi ha ispirato il Caproni, mio autore preferito. Parla di ghiacciai e acciaio nel crinale tra storia e preistoria. Perfetto per la mia vicenda. Ha cominciato coi versi. Perché poi la narrativa? Poesia è una passione. Ma volevo ricostruire un mondo, raccontare personaggi. E si può fare solo con un romanzo, anche se è un'impresa temibile tenere in mano le strutture narrative, non mollare mai i personaggi. Sfornerà altre storie? Con calma. Il contratto prevede un'opera per il 2014, un'altra nel 2016. Come vive lo Strega? Tranquilla. Volevo pubblicare un romanzo. È successo. Ho già vinto.

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