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Ligabue a caccia di spettri

Ligabue sul palco. E' uscito il nuovo album del rocker

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Palasport di Rieti, una gelida notte d'inverno del 1992. Ligabue era la stella nascente del rock italiano, ma quella sera c'era stato un problema con gli organizzatori locali del tour: nessuno degli spettatori poteva accedere al parterre. Così Luciano suonò per cinquecento fans assiepati in tribuna, lontanissimi dal palco, con il vuoto davanti a lui e una rabbia in corpo che - si vedeva - l'avrebbe portato ovunque. Quasi vent'anni dopo è alla vigilia di un tour che debutterà il 9 luglio (c'è il tutto esaurito) allo Stadio Olimpico di Roma, con replica (ed è la prima volta che gli accade) la sera successiva. Ha appena celebrato il cinquantesimo compleanno, e il regalo che si è fatto è il nono album di inediti della carriera: sarà nei negozi l'11 maggio, mentre nelle radio imperversa il singolo "Un colpo all'anima", con corollario di video ad uso del web. Il cd si intitola "Arrivederci, mostro!" ed è potente e temerario, meno pop e più abrasivo dei suoi precedenti e con la vocazione di dimostrare che, a questa età, "il meglio deve ancora venire". Costruito attorno a una sezione ritmica particolarmente muscolare (il batterista Michael Urbano e il bassista Kaveh Rastegar, protagonisti dei suoi concerti più recenti) e sulla produzione di un vecchio incomparabile stregone come Corrado Rustici, offre un suono dichiaratamente "internazionale", senza rinnegare le radici da rock al lambrusco del Liga d'antan. Il titolo è programmatico, e Luciano lo spiega così: «Credo di conoscere abbastanza bene i miei "mostri", mi fanno compagnia da tanto tempo. Può darsi che sia anche per questa lunga frequentazione che ora, in questa fase della mia vita, mi sembrano meno potenti e ingombranti. Alcuni di loro li ho affrontati in questo album ma era solamente per fargli sapere che li stavo salutando».   E dato che le rughe portano la saggezza, il cantante sa che questo non è un addio definitivo a ossessioni, paure, condizionamenti. Solo un temporaneo commiato, e via andare. Nel disco c'è spazio per molti regolamenti di conti emotivi: con l'urgenza di vivere come se ogni giorno fosse un «Atto di fede», o di varcare continuamente «La linea sottile» fra "la voglia e il piacere, fra la noia e il bicchiere". O di urlare senza mezzi toni che «La verità è una scelta». I testi sanno essere taglienti come lame, ma anche lirici e struggenti, come accade nella poesia rielaborata di «Il peso della valigia», nell'amore luminoso della ballad «Ci sei sempre stata», o nella tragica «Quando mi vieni a prendere?», ispirata dalla strage che si verificò in un asilo belga nel gennaio del 2009, quando un giovane mascherato da joker uccise una donna, due bambini e ne ferì altri dodici. Il brano dura sette minuti, è il più lungo mai composto da Ligabue, ed è narrato dal punto di vista di uno dei piccoli aggrediti, probabilmente uno tra quelli assassinati: difficile, alla fine, non trattenere le lacrime. Quello del genitore è un leit-motiv che scuote spesso lo spirito del rocker emiliano. Non solo perchè in un brano («Taca banda» improvvisato in studio, e dal sapore scopertamente dylaniano)suona la batteria l'undicenne figlio Lenny, ma anche perché nell'autunno del 2008 il Nostro visse il lutto («con cui è difficile pacificarsi», ammette oggi) di un bimbo perso dalla sua compagna al sesto mese di gravidanza. Quel dolore ha alimentato le notti insonni raccontate nella canzone-chiave del cd, «Caro il mio Francesco», una lettera aperta all'amico Guccini, ammirato non solo come autore dell'"Avvelenata", ma anche come esempio di coerenza e lealtà in un ambiente musicale dove abbondano "tre tipi". Si tratta, spiegano i versi, di "bravi artisti, furbacchioni e topi, il topo canta solo di quanto lui sia puro, e poi dà via la madre per stare sul giornale, ed è talmente puro che ti lancia merda soltanto per un titolo più largo". Ma se gli chiedi con chi ce l'abbia, Liga ripete che "il mio disprezzo me lo tengo dentro, che il letamaio è colmo già pubblicamente". Nel mirino c'è qualche giornalista, e di sicuro anche suoi colleghi, ma nomi non ne fa. Quanto al resto, in «Nel tempo» lascia andare il rewind della memoria all'Italia della sua gioventù, ai giorni di Moro, Berlinguer, ma anche Zorro, Blek, Braccobaldo, Belfagor e Carosello, quando - canta - "hanno ucciso Lavorini, e dopo niente è stato più come prima". C'è qualche canzone politica in arrivo? «Non ne sono capace, mentre qualcosa di sociale c'è, in questo disco». Nel prossimo, magari, riaffioreranno i mostri. Per ora va magnificamente così.  

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