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Gabriele Antonucci Pochi gruppi come i Prodigy hanno influenzato la musica degli anni Novanta, trovando una sorprendente sintesi tra punk ed elettronica, due generi apparentemente agli antipodi.

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Domanisera il sound potente, oscuro e innovativo dei Prodigy trasformerà l'Atlantico Live (via dell'Oceano Atlantico 21) in una gigantesca discoteca, in cui sarà difficile non lasciarsi coinvolgere dalle hit della band capitanata dal leader carismatico Keith Flint. Cresta bionda asimmetrica, sguardo spiritato, trucco pesante, tatuaggi e piercing su tutto il corpo, Flint rappresenta perfettamente l'immagine inquietante e trasgressiva dei Prodigy i quali, pur proponendo un genere per nulla radiofonico, hanno venduto la bellezza di sedici milioni di dischi in venti anni di carriera. In realtà, dietro al frontman e al rapper Maxim, l'artefice delle alchimie elettroniche, oltre che il regista «occulto» della band, è il dj Liam Howleet. I tre si sono conosciuti, neanche a dirlo, a un rave dove, nonostante le atmosfere lisergiche della serata, è nata l'idea di formare un gruppo di dj, musicisti e ballerini per suonare musica da destinare a questo tipo di feste. All'inizio era presente anche il dj-ballerino Leeroy Thornhill e una ballerina, Sharkey, che lasciò il gruppo poco prima dell'esordio discografico perché non voleva trasformare la sua passione in lavoro. Una scelta di cui si sarà sicuramente pentita in seguito, visti i risultati. Il nome della band deriva da un sintetizzatore della famiglia Moog, chiamato per l'appunto Prodigy, che Howlett utilizzava per comporre i suoi brani. Nel 1991 esce l'album di esordio «What evil lurks», che viene trainato dal singolo «Charly», un travolgente brano drum & bass in cui viene campionato un annuncio del servizio di informazione pubblica inglese per bambini. Un'idea semplice ma vincente, che fa da apripista ai successivi «Everybody In The Place» e «Fire/Jericho», due inni generazionali per tutti i ravers europei. Il disco successivo «The Prodigy experience» sottolinea ancor più le influenze giamaicane della loro musica, con un uso massiccio di basi drum & bass, ottenute da campionamenti reggae velocizzati, e dall'uso della voce di Lee «Scratch» Perry. Nel terzo lp «Music for the Jilted generation», da cui viene estratto il trascinante singolo «No good (Start the dance)», si intravedono i segni di una nuova direzione musicale, come in «Voodoo People», in cui è evidente l'influenza del rock. Il 1996 è l'anno della definitiva consacrazione con «The fat of the Land», anticipato dal successo mondiale di «Firestarter», brano al centro di numerose polemiche per l'esplicito riferimento alla piromania. Stesso destino tocca al secondo singolo «Smack my bitch up», il cui video fu censurato in Inghilterra perché istigava alla violenza verso le donne, accusa negata con decisione dai Prodigy. Liam Howett, a tal proposito, sottolineò che «chi dice che è una canzone sul piacere di picchiare le donne è senza cervello». È il momento, nel bene e nel male, di massima popolarità dei Prodigy, che sono al primo posto in classifica in 22 Paesi. Inoltre più di un milione di persone li seguirà nel tour mondiale successivo al disco, numeri da vere rock star. Seguono, poi, alcuni anni di lontananza dalle scene, anche per dedicarsi ai progetti solisti, che si concludono nel 2004 con «Always outnumbered, never outgunned», quarto album in studio. Domani i Prodigy presenteranno il recente «Invaders must die», «undici nuove canzoni piene di dance/punk elettrico, rumore ed energia», come descrive efficacemente l'adesivo applicato sulla copertina del cd.

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