Don Chisciotte, eterno velleitario
Ilmotivetto fischiettava nelle orecchie uscendo dalla scialba rappresentazione di un Don Chisciotte, proprio quello di Petipa (1871) con le facilotte musiche di Minkus, rinverdito all'inizio del secolo scorso da Alexander Gorskij e ora nuovamente imbandito alla bell'e meglio dal russo Timur Fayziev all'Opera di Roma. D'accordo: il Don Chisciotte non è né il Lago dei cigni né Schiaccianoci, non ne possiede né la logica drammaturgica né il fascino musicale, ma sino ad ora aveva goduto di una allure se non altro per l'interessamento di Nureyev, per l'interpretazione di mostri sacri come la coppia Maximova-Vasiliev o il volante Baryshnikov. Ed anche l'edizione Prebil vista per oltre vent'anni all'Opera aveva esercitato il suo fascino. Ora con scene originali ma sterili, la vicenda dei vispi innamorati spagnoli all'epoca dell'eroe cervantesco si spegne di colori (brutti quelli dei costumi tra bordò, rosa e viola), manca di smalto anche nelle scene altre volte parse le più suggestive come la lotta visionaria contro i mulini a vento o il sogno di Don Chisciotte animato da giovani Driadi. Le parti migliori della coreografia erano quelle di Petipa e Gorskij, ma la performance non brillava neppure per la personalità dei due solisti: una piuttosto algida Ekaterina Borchenko e un poco frizzante Tamas Nagy. Ed anche certi tempi musicali, sotto la direzione del pur valente Marzio Conti, apparivano appesantiti a causa delle esigenze coreografico-registiche. Poco curato l'insieme, a tratti deconcentrato con qualche scivolone di troppo (come se serpeggiasse aria di smobilitazione). Applausi più che altro di incoraggiamento per una operazione immotivatamente esterofila che denuncia la esatta differenza che passa tra l'oleografico e lo stantio.