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Nel «Cuore di cactus» la speranza della vita

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«Unuomo è i libri che ha letto, i maestri che ha avuto, le donne che ha amato, gli amici che ha scelto». È in questa confessione la porta per entrare nelle pagine di «Cuore di cactus» (Sellerio, pag. 143), ultimo libro di Antonio Calabrò, siciliano di Patti, giornalista, scrittore e top manager del gruppo Pirelli. Non un romanzo, trattandosi di realtà, né un saggio, essendo latitanti citazioni e dissertazioni filosofiche o sociologiche, né un diario, mancando la sequenza cronologica. Forse un «diario pubblico» o, meglio, un bilancio della propria vita, vissuta tra Palermo e Milano, delle scelte fatte, delle vittorie, delle sconfitte... anche perché scrivere è «l'unica consolazione che abbiamo», è un atto di liberazione, è amore. Quell'amore racchiuso proprio nel cuore del cactus, una pianta che conserva sempre, anche nel deserto, l'acqua e la vita. C'è l'animo di Ulisse nel Calabrò che di notte guarda il mare siciliano, color del vino quando scende la sera, accecante e denso di felicità all'incerta luce dell'alba. C'è la leggerezza e il vezzo fecondo del flaneur con l'inesauribile ansia dell'altrove, del vagare e del fermarsi fino alla contemplazione. Insomma, in «Cuore di cactus» c'è la vita pubblica e privata di Calabrò, c'è la nostalgia ma soprattutto l'analisi. Tutto questo si può riassumere in una sola parola: vita. Un percorso che parte dalla Sicilia, magica terra alla quale Calabrò resta comunque legato «legando» alla sua isola anche i lettori che non la conoscono, perché il suo viaggio può essere quello di tutti noi, la sua quotidianità è la nostra con sullo sfondo mezzo secolo di vicende italiane, viste e «tagliate» dal cronista che cominciò a «L'Ora», quotidiano di battaglia civile contro la mafia ma anche ponte per il dialogo tra culture e posizioni politiche diverse, nel cuore della società siciliana più attenta alle libertà e alle ipotesi di crescita economica e sociale. Si comincia con la «Palermo felicissima» degli anni Sessanta, carica di passioni culturali e sociali di rinnovamento, si passa per le battaglie morali condotte da persone purtroppo scomparse e lo «scummattiri» ancora attuale dei tanti uomini, donne, ragazzi che non si rassegnano all'idea di un inevitabile declino del capoluogo e della regione, al destino della «irredimibilità» e si arriva alla Palermo degli ultimi decenni del Novecento, quella degli anni cupi della violenza mafiosa, della «mattanza di corpi e di speranze». Quel periodo che convince Calabrò a emigrare anche se, come sostiene, «probabilmente, non si emigra mai. Se non altro, non si emigra da se stessi. O forse è proprio sbagliato il termine, emigrare». Il suo addio a città e testata matura nell'agosto del 1985 il giorno dell'uccisione dell'amico commissario Ninni Cassarà. Non voleva più essere testimone dei vuoti rituali in cui la città espugnata inghiottiva il messaggio dei suoi migliori servitori del pubblico interesse. Quindi la partenza verso Milano, «per cercare altrove una nuova misura di mestiere e di vita». Da L'Ora, a La Repubblica, al Sole 24Ore, a direttore degli Affari istituzionale e culturali della Pirelli, a professore alla Bocconi e alla Cattolica di Milano, Calabrò tra memorie private, esperienze di viaggi, progetti e grandi fatti di attualità, disegna il ritratto di un Paese in cambiamento: un Sud soffocato tra vecchie e nuove clientele, un Nord percorso dalle avventure dell'industria, della finanza, da inedite tensioni sociali e politiche. Palermo-Milano, una distanza professionale ed esistenziale che offre all'autore l'opportunità di ripensare a «quella» Sicilia e riflettere sia sulle sue difficili possibilità di sviluppo, sia sulle sue positività. Insomma, la storia di un italiano che tenta di fare i conti con il proprio tempo, con l'impegno professionale e culturale, con il ruolo «di uno che se ne va». Un racconto che può valere, per la riflessione di chi parte e di chi resta, più di un'inchiesta sociologica. L'acqua sempre presente nel «Cuore di cactus» è la speranza che non abbandona mai Antonio Calabrò che si affida a Calvino per chiudere il suo libro: «Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

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