Quel gran lombardo che sfondò con Roma
Il«Pasticciaccio» è un libro-cult. Lo dice un'indagine nei licei italiani e lo conferma un tam tam tra gli under 21. Piace perché il suo non è un linguaggio incomprensibile, piuttosto un gergo che intriga i ragazzi. Che di gerghi vivono. E poi Gadda è antico e moderno insieme. C'è il Gadda della guerra, della Grande Guerra, che Fabrizio Gifuni sta portando a teatro con uno spettacolo, appunto «L'ingegner Gadda va alla guerra» tratto dai suoi taccuini sul fronte. C'è il Gadda anni Cinquanta, che racconta di un tempo superato e attuale: la Brianza della speculazione edilizia, del mito della proprietà privata in «La cognizione del dolore» («Di ville, di ville! Di villette otto locali e doppi servissi...» attacca un capitolo) e la Roma gravida di delitti e marciume, ombelico di istinti e putrescenze di «Quer pasticciaccio brutto de via Merulana». Dice Walter Pedullà: «La critica s'interroga spesso su quale sia il capolavoro di Gadda. Io propendo per Il Pasticciaccio. Con una notazione: lui, il gran lombardo, finisce per essere il più grande scrittore ad aver raccontato Roma nel Novecento. Quasi rubando, lui barocco, il primato al realista Moravia». L'ingegnere milanese ossessionato dal Manzoni (morì ascoltando i suoi amici più cari che gli leggevano i Promessi Sposi) visse nella Capitale il periodo più fortunato della sua esistenza. Ci arrivò negli anni Cinquanta, prese casa in via Blumensthil 19, una traversa silenziosa di via della Camilluccia. Sotto, il quartiere Prati e la Rai, dove lavorava nella redazione letteraria del giornale radio. Il «Pasticciaccio» uscì per Garzanti nel 1957. Dice ancora Pedullà: «Non si parlava d'altro che del romanzo quando io, ventiseienne, lo incontrai in casa di De Benedetti. Gadda non era un gran parlatore, ma aveva verso la letteratura un atteggiamento un po' irridente, come per tutto il resto». E però ne restava invischiato. Come nella ragnatela di cause e concause che intricano il mondo. Quel «gliuommero» che il molisano Ingravallo, nell'andirivieni dall'ufficio di via Santo Stefano del Cacco al 219 di via Merulana dove hanno sgozzato la povera Liliana Balducci, non riuscirà mai a sbrogliare. Si dice che il giallo finto sia stato ispirato a una storiaccia vera del 1945, col cavadere steso a terra in un appartamento di piazza Vittorio. E a piazza Vittorio, nella «gran fiera magnara», Gadda ambienta una delle pagine più fantasmagoriche del romanzo, allorché un poliziotto, il Biondone, acciuffa il ladruncolo Ascanio. Il sopralluogo al mercato lo fece con Piero Citati, che lo accompagnò in automobile. Gadda s'intrufolò tra i banchi, come in trance. Tutto assorbì, metabolizzò, con uno sguardo. Altro milieu a piazza del Popolo, dove andava a prendere l'aperitivo seduto all'aperto. E un altro ancora ai Castelli, inseguendo l'acquedotto e i miti di Roma antica. Quandò morì, nel 1973, a ottant'anni, si scoprì che aveva lasciato, in testamento, i libri e le carte alla biblioteca teatrale Il Burcardo, in piazza di Torre Argentina: 2500 volumi, tra cui 31 dizionari, e 70 testate di periodici. E poi tre quaderni che testimoniano l'attività di ingegnere svolta fino al 1930 per la Società Lombarda di distribuzione dell'energia. Roma è anche il suo sepolcro. Al cimitero acattolico della Piramide, dove riposano Keats, Shelley, Gramsci.