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Bucarest l'inferno comunista

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Inbase agli ordini stabiliti nel 1952 e perfezionati nel 1958 dal Ministerial Afacerilor Interne, il famigerato Mai, si dovevano arrestare tutti coloro che «mettessero in pericolo - oppure tentassero di mettere in pericolo - il regime di democrazia popolare, la costruzione del socialismo e diffamassero il potere dello Stato e dei suoi organi». Fu così che con processi affidati a commissioni formate da colonnelli e generali preposti alla sicurezza vennero condannate schiere d'innocenti per delitti immaginari. Numerosi gli arresti di intere categorie sociali, come nella notte del 27 luglio del 1948 per gli ex-impiegati della polizia, o negli anni tra il 1949 e il 1953 per i contadini che non avevano pagate le quote prescritte, o tra il 1958 e il 1960 per gli intellettuali e i sacerdoti. E, nei primi anni di occupazione sovietica, il Corpo degli Investigatori eseguì arresti di centinaia di migliaia di simpatizzanti e militanti dei partiti politici che si erano opposti alla trasformazione del Paese in un regime comunista. Ebbene, sullo sfondo di ricerche documentarie, Dario Fertilio ricostruisce - nel suo «Musica per lupi» edito da Marsilio - le atrocità compiute nel più terribile esperimento carcerario condotto fra il 1949 e il 1952 nel carcere speciale di Pitesti, a nord di Bucarest. Qui l'isolamento completo preludeva all'esercizio di un potere incontrollato sui prigionieri; si ricorreva a inimmaginabili torture; si uccideva tra tormenti; si indulgeva a un uso blasfemo dei testi sacri, ma soprattutto si sfogavano istinti repressi e atti di sadismo, esaltati come manifestazioni sane, perché demistificate, della specie umana. La vernice ideologica, su cui erano tracciate le parole rivoluzione, proletariato, giustizia, comunismo, mascherava un darwinismo alla rovescia: l'uomo regrediva in bestia. E gli smascheramenti, condotti da Eugen Turcanu, mirarono a trasformare tutti in belve. L'edificazione del comunismo esigeva "uomini nuovi": da qui la necessità della "rieducazione" di tutti gli avvelenati dalle idee di Dio, di famiglia, di patria, di libertà economica e di diritti umani. Solgenitzin definì Pitesti "il più terribile atto di barbarie del mondo moderno" . Scrive Fertilio che Pitesti rappresenta qualcosa di unico nella storia del Novecento: non l'annientamento ideologico e biologico come Auschwitz; non lo sterminio di massa come nel Gulag; e neppure la rieducazione forzata e spietata come in Vietnam o in Cambogia. Piuttosto una tortura ininterrotta. Ralma Pop, madre di studente non più tornato da Pitesti dice: "Ho saputo che Pitesti è una prigione dove si tortura". E il sergente Gafencu replica: «Pitesti non è nemmeno l'inferno. È un luogo di cui non si può parlare». Nel 1952, allorché le prime notizie sull' «esperimento Pitesti» cominciarono a filtrare, per evitare uno scandalo internazionale vennero arrestati gli autori dei crimini, Turcanu in testa: il processo emise sentenze di morte per i responsabili, senza toccare i mandanti politici. Da questa tragedia la consapevolezza che il prezzo della libertà è l'eterna vigilanza, e che essa, la libertà, - per dirla con David Hume - «è raro che si perda tutta in una voltà».

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