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Gabriele e Monica insieme per una Danza di Morte

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Tiberiade Matteis È un dialogo con gli spettri del passato «Danza di morte» di Strindberg che, forse non per caso, ricompone sul palcoscenico lo storico sodalizio formato da Gabriele Lavia e Monica Guerritore con debutto nazionale stasera all'Argentina. La storia di un matrimonio lungo cinquant'anni, quello fra Edgar e Alice, diventa la sintesi dei fallimenti di una vita intera: lui militare che non è mai riuscito a far carriera e lei invece che ha abbandonato il mestiere d'attrice per sposarsi. I sogni infranti di una coppia che mette a nudo le proprie frustrazioni funzionano come partitura per due interpreti, disposti a ritrovarsi dopo anni di separazione privata e artistica. Le ombre del tempo lontano riprendono corpo attraverso lotte fisiche, urla, scontri, conflitti, dove si svelano sentimenti, impulsi, emozioni, rancori con toni così duri e spietati che arrivano a sfiorare il grottesco, ma che rappresentano il vero naufragio di una vita. «Danza e Morte sono due specchi che ti guardano moltiplicando tutte le immagini riflesse all'infinito in una specie di "abisso" in cui ci si trova "spaesati" o, freudianamente, perturbati» spiega Gabriele Lavia, che firma anche la regia. «La Danza, espressione di vita, e la Morte risultano una sola cosa. Danza di morte sono tre parole ben distinte che indicano e separano tre pensieri. La Morte è intesa come specificazione della Danza. In altre parole, è una danza che porta alla morte, una danza mortale. Quest'opera è stata scritta come l'eruzione di un'anima gonfia di dolore. Di getto. Strindberg è un autore poco frequentato sulle scene italiane. Eppure la drammaturgia moderna gli deve tutto. Un atto unico. Un tempo solo. L'azione semplificata, serrata, classica. Protagonista, antagonista. Questa è la mia quinta regia di un'opera di Strindberg. Ma se ci metto due regie di opere di Ingmar Bergman potrei dire che questa è la mia settima regia poiché il grande regista svedese deve tutto al grande poeta svedese».

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