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La sfida di Shel

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Shapiro con Moni Ovadia

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Se l'8 maggio del 1963, quando Shel Shapiro arrivò a Milano, per la prima volta in Italia, qualcuno gli avesse detto che un giorno sarebbe salito sul palco del più autorevole teatro romano per interpretare un lavoro di Shakespeare si sarebbe fatto una bella risata. Con la testa piena di rhythm and blues e rock and roll, accompagnato da altri tre amici londinesi, gli ormai mitici Rokes, lo spilungone del gruppo pensava solo alla musica, ricercando il successo nel settore che gli era più proprio e per il quale mostrava già un indubbio talento. Ma alle volte le strade dello spettacolo sono lunghe e impervie, come diceva Bob Dylan.  Esauriti gli anni Sessanta e il grande successo dei Rokes, dopo un lungo periodo di attività come autore e produttore (Luca Barbarossa, Rino Gaetano, Anna Oxa, Riccardo Cocciante, ecc.), ormai da diversi anni Shapiro, pur non abbandonando la musica, preferisce svolgere ruoli più complessi e articolati. L'attore lo fa da molti anni, forte del suo aspetto fisico - quasi due metri di statura, una voce inconfondibile, un fraseggio che tradisce le sue origini e soprattutto una notevole espressività - ma soprattutto per quell'innata voglia di mettersi (rimettersi) sempre in gioco. Stavolta ha accettato l'invito di Moni Ovadia e Roberto Andò per "Il mercante di Venezia", dove sarà Shylock al teatro Argentina. A vederlo, Norman David Shapiro, suggerisce ancora oggi l'ebreo errante che non trova pace, cosmopolita eppur stanziale, come capita proprio a lui. Shel adora le scommesse, come intuì al volo Edmondo Berselli quando scrisse per lui "Sarà una bella società", una biografia in chiave canzone-teatro propria sulla vicenda italiana dell'ex leader dei Rokes. Un successo, addirittura anche in tv, al punto di esser replicato già due volte su Raidue per i notevoli ascolti ottenuti. Stavolta l'impegno è più considerevole poiché il progetto non è autobiografico ma decisamente autoriale, in sostanza non interpreterà se stesso. È bello vedere un artista con milioni di dischi venduti, ancora oggi a pieno titolo nell'immaginario dei ragazzi degli anni Sessanta, proporsi in continuazione in vesti insolite e in qualche modo rischiose. Certo, il revival sarebbe stato più tranquillo, come pure certe trasmissioni televisive sempre ben disposte ad ospitare i miti del passato. Ma non è quello il suo mondo. A 67 anni, con quell'aria "gypsy" che non lo abbandonerà mai, Shel, come direbbe un suo grande collega chitarrista che zingaro lo era realmente, Django Reinhardt, fa ormai parte della comunità "gadjè", gli zingari di periferia, quelli che non tornano mai indietro. Django era l'eroe di una etnia, Shel di una generazione resistente.

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