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Er latinesco di Belli

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Alfiglio prediletto, che doveva diventare avvocato, lo raccomandava continuamente: «È tanta, Ciro mio, la necessità di conoscere la lingua latina. Studia dunque: un poco di fatica sarà un giorno ricompensata da infinito piacere e da gloria». È Giuseppe Gioachino Belli, in una lettera del 1833, a premurarsi della formazione classica del suo ragazzo, sistemato al Collegio Pio di Perugia. Perché il fustigatore della Roma di Papa Re era uomo di mondo, sapeva bene quale chiavistello fosse il latinorum per arrivare. In una città infarcita di preti e parrucconi, di nobilastri e faccendieri baciapile, la lingua di Cicerone la conosceva, a modo suo, anche il popolino al quale Belli dava voce. Era un marchio dal quale non si poteva prescindere. È il fulcro del libro «Il Belli e la cultura classica» che riunisce le ricerche sull'argomento di Michele Coccia, «romanoderoma e consumato latinista (absit iniura)» come scherza nella prefazione Eugenio Ragni. Un tuffo in un aspetto poco indagato del più sarcastico poeta capitolino nel volumetto che viene presentato oggi a Roma. Dice Coccia: «Carlo Muscetta, grande storico della letteratura italiana, ha preso un abbaglio quando ha sottovalutato la cultura classica del Belli. Un errore derivato dalla considerazione della Roma di primo Ottocento come città da sgrossare e sostanzialmente ignorante. Invece il Belli, che studiò filosofia dai sacerdoti del Collegio Romano ma che alla morte del padre dovette mettersi a lavorare da computista, lesse e lesse i classici. Catullo, Lucrezio, Virgilio, Cicerone, Orazio, Ovidio. Un bagaglio che riversò nei sonetti, nelle poesie, in lingua e in dialetto». Anche il greco era un obiettivo che indicava al figlio. Ma la lingua di Saffo, lui che si sfiziò in sei sonetti a scrivere «Ccrielleisonne» (che sta per Kyrie eleison), non fu il suo forte. Invece il latino era un modo per immergersi nella realtà. Della politica, degli affari, della società, della Chiesa. Gioachino inseguiva l'idioma dell'urbs nell'uso, storpiato, quotidiano. Ne registrava ogni eco. «A Roma si vorrebbe latina pure la minestra», annotava. E poteva essere altrimenti in un volgo che faceva delle litanie in chiesa, nelle preghiere in latino, delle processioni, del rapporto subalterno con il clero la consuetudine giornaliera? Ecco allora Belli coniare il termine «latinesco». Non romanesco. «Il romanesco è una lingua, altro che dialetto, perché ha avuto grandi prosatori e poeti che lo hanno forgiato», precisa Coccia. Che poi spiega: «Il latinesco era la storpiatura del latino operata non solo dagli incolti, ma da chierici e preti e frati e a salire nella gerarchia ecclesiastica e nelle dimore dei nobili. Il Belli ne coglieva le sfumature e le schedava. Traendone spunti per il suo Zibaldone, una sorta di enciclopedia ad uso del figlio Ciro che avrebbe urgente bisogno di una riedizione critica. Ma quelle parole contaminate le inseriva soprattutto nella sua officina». Ed ecco un altro capitolo succoso. L'«officina» del Belli è una cassetta di appunti conservata nella Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, accanto al fondo belliano degli autografi. Egle Colombi, funzionaria della Biblioteca dedita per tutta la vita alle carte del poeta de «La famijja poverella», raccolse quegli appunti stringendoli con una fascetta così titolata: «Appunti per le poesie in latinesco». E ancora oggi ne possiamo godere. Un esempio, tirato fuori dai saggi di Michele Coccia? Il sonetto «Er Pangilingua», dove Belli immagina la rivolta di un personaggio contro la «stroppiature» del «Pange Lingua» da parte del clero durante una processione. «De sta tinta se stroppia er Pangilingua? / Sto bber fior de resie vanno cantanno, / che jje se pòzzi inverminì la lingua? / Incollato?! Che mmoras incollato! / Ho ssempre intes'a ddì da trentun'anno / che Ccristo in crosce sce morì inchiodato». E poi gli sfondoni delle donnette davanti all'altare. Come in «Le lettanie de Nannarella» che pubblichiamo qui accanto. La popolana dice «fede e rrisarca» a posto di «foederis arca»; «tturis e bbruggna» invece di «turris eburnea»; «ssede e ssapienza» sta per «sedes sapientiae»; «reggina proffetaro» per «regina profetarum»...Ne prendesse nota Ciro che sulla pagella aveva «mediocre» in latino. Ma che da grande raccolse «l'officina del Belli», il crogiuolo del latinesco, e la consegnò a noi.

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