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Pochi scrittori nel secondo dopoguerra sono stati capaci di ridere "amaro" come Ennio Flaiano.

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Acolpi di ghigni, Flaiano, è vero, faceva a pezzi "tic" e "tabù" d'epoca, a partire da quello che lui definiva il "fascismo degli antifascisti", ma ci soffriva, e parecchio, per quell'Italia che non sapeva diventare adulta, che non riusciva a ripensare il proprio passato e dunque a costruire il proprio presente, che, già alla fine degli anni Cinquanta, stava imboccando la strada del "miracolo economico", ma che dal miracolo di una crescita etica, civile e morale sembrava ben lontana. Eppure Flaiano non se la sentiva di suonare le trombe dell'indignazione: sapeva bene che la retorica giustizialista è figlia del moralismo settario e che il moralismo settario partorisce il giacobinismo e che il giacobinismo genera il Terrore e poi lo sfilacciamento anarchico della società e la deriva dei costumi fino al Napoleone di turno che restaura l'ordine. Vecchia storia. A quando, allora, la democrazia? Sorrideva amaro Flaiano, miscredente e sofferente al tempo stesso. Ma non si lasciava sedurre dagli sbandieratori dell'ideologia: non ci cadeva più nella trappola dei "valori". Quanto alla Storia con la esse maiuscola, che lo lasciassero in pace: il Fascismo aveva preteso di farla e si era visto com'era finito. Ma, allora, la colpa era degli Italiani? Certo, Flaiano ha sempre frustato i vizi di casa nostra: eppure, a un certo punto, il suo mal di vivere esorcizzato dall'ironia evidenzia radici più profonde: non è che solo gli Italiani sono fatti "così", a esser fatti "così" sono tutti gli uomini, impasto di bene e di male, con abbondante condimento di mediocrità. A meno che...A meno che uno non abbia a che fare con esperienze forti. Quelle che segnano. Provi a metterle nell'archivio della memoria, spruzzate di polvere e di nostalgia, ma tornano. Se hai conosciuto la guerra, l'amore e la morte, te li ritrovi dentro, tumultuosamente vivi. Non li puoi ignorare. Ed è così che, a pochi mesi dalla Liberazione, Flaiano incontra Longanesi, che sta lanciando la sua casa editrice e gli racconta della "sua" Africa. "Svelandogli" memorie che hanno il sapore di un drammatico "documento", filtrato attraverso il sogno. O l'incubo. "Non perda tempo, si metta al lavoro", gli ordina Longanesi che fiuta il talento e il successo. E Flaiano scrive "Tempo di uccidere", il romanzo che vincerà lo Strega nel '47. Lì mette tutto se stesso. L'umanità, la disumanità. Gli eroi, quando combattono, ma anche quando sono "stanchi". Le illusioni che aiutano a vivere, ma anche ad uccidere, a morire, a far morire. Il sogno dell'Impero, l'incontro/scontro con la realtà, l'Altro che è un'Altra ("Faccetta Nera, bella Abissina"...), l'innocenza totale del dono d'amore, il caso ( "una causa segreta", ci ricorda sempre Borges) che scatena la tragedia, e la commedia buffa, atroce e grottesca del "dopo", perché ci sono, da risolvere, gli imbrogliatissimi conti con la coscienza, e con ciò che è opportuno fare e non fare, dire e non dire. Di fronte a tutti i tribunali, compreso quello della Storia. E poi: ma "quella cosa" è accaduta davvero? Un incidente, un delitto, una "esecuzione"? L'uomo del Novecento che si guarda in uno specchio? O l'uomo di sempre? "Tempo di uccidere" è l'unico romanzo di Flaiano. È l'unico perché il suo "punto di domanda" è enorme: e basta. "Dopo", verrà l'umorista "amaro", il tessitore di fulminanti aforismi, di note di diario, appunti, spunti, abbozzi, divagazioni sui massimi e i minimi sistemi (Adelphi ne ha stampate diverse raccolte), il fortunato soggettista e sceneggiatore (dei Vitelloni, Lo Sceicco Bianco, La Dolce vita). "Dopo", nessun punto fermo o esclamativo, molti punti interrogativi, molti puntini di sospensione...

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