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Io, Malika, felice di essere meticcia

Malika Ayane al Festival di Sanremo 2010

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Stare a Sanremo è un po' come posare per la copertina di "Sgt.Pepper's" dei Beatles, tra personaggi leggendari e figure che fanno da sempre parte del mio immaginario televisivo. Incontro Mollica o Malgioglio e capisco che sono registrati da tempo immemore nel microchip che chiunque di noi ha innestato nel cervello, praticamente dalla nascita, e che comprende la memoria di ogni Festival. Anche quelli trasmessi prima di noi. Così mi emoziono se vedo un filmato di un giovane Al Bano che canta il doo-wop de "La siepe" nel '68 con la folksinger americana Bobbye Gentry, o se mi capita (per il film di Virzì) l'onore di reintepretare "La prima cosa bella", quella meraviglia di Nicola Di Bari datata 1970. Io sono del 1984, e se ritrovo le immagini di Mietta e Minghi che duettano su "Vattene amore" penso a cosa dovevano essere quegli anni, le spalline larghe delle giacche, i capelli cotonati: chissà che look "espanso" avrei avuto sul palco. Poi ogni ricordo si confonde: nel cinema della testa mi appare la Cuccarini in gara all'Ariston, ma accanto a lei c'è Columbro. Impossibile. È come un frullatore, sono in overdose di storia sanremese.   L'altra sera, quando cantando "Ricomincio da qui" facevo gesti all'orchestra per non perdere il tempo, mi è scattato il mio "dito inquisitore": ma non c'era nessuno da accusare, la mia è una canzone d'amore ispirata a una canzone di Prevert, non è una recriminazione né un abbandono. Oggi esce il mio secondo disco, "Grovigli", con contributi preziosi di Paolo Conte e del mio fidanzato Cesare Cremonini, il più brillante cantautore italiano. Ma non ho la percezione che la mia voce possa avere un'influenza profonda sugli altri: mi sorprendo quando qualcuno mormora dietro di me per strada. Penso alla lavatrice da fare, o che devo andare a prendere mia figlia alla scuola materna. In classe della mia piccola i bambini hanno mille colori: vengono dall'Asia, dall'Africa, ma tutti hanno l'accento meneghino. Mio padre è marocchino, mia mamma milanese, mio nonno ebreo-tedesco. Sono fiera del mio meticciato: dobbiamo ripartire dalle prossime generazioni per far capire che la presunta "diversità" è una ricchezza, e che la piena integrazione razziale si può ottenere solo con la volontà di risolvere politicamente certi problemi. Ho vissuto a lungo a Via Padova, dove pochi giorni fa sono avvenuti dei tumulti: e posso assicurare che lì vivono centinaia di famiglie oneste di origine non italiana, che si fanno un mazzo così per assicurare un degno futuro ai propri figli. Naturalmente, se vivono in duemila in un palazzo che puo accogliere cento individui, prima o poi qualcuno non contiene più la rabbia. Lì scatta la demonizzazione: anche se ovviamente non tutti i buoni stanno da una parte e i cattivi dall'altra.  

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