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Amore al tempo dei trans

Vincenzo Motta ne

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BERLINO - Ha commosso anche il pubblico e la stampa berlinese il film «La bocca del lupo», presentato nella Sezione Forum dal 33enne regista casertano Pietro Marcello. La pellicola, prodotta dai Gesuiti della Fondazione San Marcellino (con Indigo e Avventurosa), sarà da venerdì nelle sale distribuita da Bim e ieri sera c'è stata sul web (Mymovies) la prima anteprima virtuale per 300 persone. Accolto alla Berlinale da un lunghissimo applauso, il film racconta la storia vera (tra fiction, documentari e reportage) di Enzo, siciliano emigrato a Genova da quando aveva due anni e Mary, una trans, romana e di buona famiglia borghese, scappata via da casa negli anni '60 per andare a vivere in una comunità genovese di transessuali. Il sentimento della coppia nasce e cresce dentro le mura della prigione, lui ha dovuto scontare 14 anni per una sparatoria contro la polizia e lei 4 mesi per una storia di droga. Quando Mary è uscita dal carcere ha aspettato il compagno, scrivendogli delle lettere e registrandogli la sua voce su delle cassette. E finalmente i due possono ora vivere insieme in campagna, con 4 cani e coltivando l'orto. Marcello, perché i Gesuiti hanno deciso di produrre questo film? «La pellicola è stata fortemente voluta dalla comunità dei Gesuiti di San Marcellino, che dal dopoguerra lavora sul territorio genovese, tra emarginati e senza tetto. Uno dei 400 volontari laici insieme con l'allora presidente della comunità, padre Nicola Gay (ora c'è invece padre Alberto Remondini) avevano visto il mio primo lungometraggio, "Passaggio della linea". E mi hanno chiesto di fare un film sugli emarginati genovesi nell'area dell'angiporto. Ho accettato. Mi piaceva l'idea di stare a Genova. E a loro faceva piacere che qualcuno raccontasse il loro territorio. Vivo a Roma, all'Esquilino, sono vicino alla stazione, così sono sempre pronto a partire. Ma vado spesso anche in Liguria, una regione che amo, l'unica del nord che geograficamente guarda verso il sud». Si aspettava tanto clamore da questo film? «No. Ma avevo preso questo impegno con i Gesuiti che volevano ridare forza e dignità agli emarginati. Ora Enzo e Mary frequentano la struttura e io ho imparato che si possono fare delle cose per gli altri. Qualche risultato positivo c'è stato: ho vinto tanti premi, a cominciare dal Torino Film festival e ora sono qui a Berlino, dove ho incontrato un pubblico molto colto e preparato a storie particolari, come la mia». Crede che anche il pubblico italiano sia altrettanto pronto ad accogliere il suo film? «Le persone sono più sensibili di quanto immaginiamo. Ma la gente andrebbe educata a vedere certe cose. Invece, nel linguaggio televisivo, il falso è solo un momento del vero e viceversa. La tv poteva essere altro, con più cultura, storia, sociologia. I ragazzi non sono educati al cinema di alto respiro e la tv non aiuta. Per fortuna il digitale terrestre sta offrendo più proposte. Le persone si formano dall'infanzia, ma se i ragazzi sono costretti a vedere solo programmi senza valore, la televisione diventa un'aberrazione che riflette la società. Però la tv sarà presto superata dalla grande rivoluzione del web, i giovani lo sanno. Si apriranno nuovi e impensabili scenari». Perché ha unito la fiction al documentario? «Mi piace sperimentare i linguaggi. Per mesi ho osservato le zone attorno al porto genovese. Enzo, il protagonista, è il residuale di un sottoproletariato che sta scomparendo ovunque. La loro storia è quella di un amore poetico, fatto di sofferenze. Si sono incontrati in carcere e sono rimasti insieme per proteggersi, nella loro diversità, dalle malvagità della vita. Quello del trans è l'aspetto più marginale e i Gesuiti hanno amato moltissimo la storia. Sullo sfondo c'è la città: la fine della zona portuale, come era negli anni '50, con i marinai e i night. Una scenografia che non c'è più, come a Napoli o a Marsiglia».  

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