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Intelligence, il segreto dell'impero bizantino

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SalvatoreSantangelo Lo studio degli imperi è la grande passione di Edward Luttwak, ma non si tratta solo di un interesse accademico. Il suo è un tentativo di comprendere per quale ragione alcuni di essi siano sopravvissuti a lungo, mentre altri si siano rivelati un'esperienza effimera; ma soprattutto, il politologo americano riflette sull'organizzazione e sulle dinamiche del potere imperiale. Ciò è particolarmente evidente nel suo ultimo volume "La grande strategia dell'impero bizantino", recentemente pubblicato dalla Rizzoli. Parlare di Bisanzio è il pretesto per parlare della nostra contemporaneità: come gli ultimi eredi dell'impero romano, ci troviamo oggi di fronte alla prospettiva non di un conflitto decisivo, ma di un permanente stato di guerra, seppur limitato. Dobbiamo proteggere attivamente una società avanzata contro una varietà di minacce, piuttosto che concentrarci sulla distruzione bellica delle forze nemiche. Si può sostenere che nelle diverse contingenze storiche i più efficaci strumenti del potere imperiale siano sempre stati la forza militare "percepita" e la cultura. E il consiglio che Luttwak rivolge all'attuale leadership americana è di usare poca guerra, molta diplomazia e più intelligence. Questa, infatti, la formula del successo dell'Impero Bizantino, che ne ha permesso mille anni di dominio incontrastato su un territorio vastissimo. Dal IV secolo fino alla caduta, avvenuta nel 1453 per mano di Maometto II, l'Impero romano d'Oriente è sopravvissuto al gemello d'Occidente, ha retto l'onda d'urto degli Unni, degli Slavi, degli Arabi e degli altri popoli che nei secoli hanno cercato di sfondare il limes. Qualche anno fa ne ha parlato anche il "nostro" generale Carlo Jean nel suo "Geopolitica" (Laterza). Nel libro vi è un paragrafo dal significativo titolo Quale tipo di strategia per l'Occidente? Quella di Roma o quella di Bisanzio? Jean fa proprio un approccio estremamente realistico (al limite del pessimismo), affermando che le strategie possibili sono due. La prima è quella di cercare un accordo, aprendo la porta ai "nuovi barbari" per opporsi a quelli più pericolosi, cercando di assimilare selettivamente tra loro i migliori. È la strada seguita da Roma, che in tal modo accelerò la propria fine ma consentì la sopravvivenza della propria cultura. La seconda è proprio la strategia di Bisanzio, cioè quella della chiusura. "Anch'essa porta al declino e alla sconfitta, ma li dilaziona nel tempo. Declino e sconfitta derivano dal disastroso calo demografico in atto. (…). È la via della diplomazia volta a dividere i possibili avversari e a provocare conflitti fra loro (…)". È assai difficile prevedere l'esito della drammatica transizione - politica, economica e militare - che stiamo vivendo. Si può provare a rispondere con una metafora, suggerita da un film il cui tema è proprio la legittimità dell'impero: "Il Gladiatore". Uno dei momenti più toccanti del film è rappresentato dal dialogo tra l'imperatore Marco Aurelio e il generale Decimo Massimo Meridio dopo la battaglia di Vindobona. "Il mondo è tenebre, Roma è la luce", dice Massimo, dopo una vittoria delle sue legioni contro i barbari germanici. L'Occidente si trova oggi negli stessi panni di Massimo, e si interroga su cosa si nasconda tra le tenebre, oltre il limes.

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