Tutti pazzi per Audrey, il suo look fa ancora moda
{{IMG_SX}}A cena col marito romano mi confidò il cruccio di essere amata solo nei ruoli soft. Però era fiera dei suoi abiti firmati. La guardai: abitino grigio, foulard, perle. Perfetta. Noi del cinema ci si conosce e si diventa amici quasi soltanto in occasioni strettamente collegate al lavoro, film, festival, giurie. Unica eccezione, per quel che mi riguarda, Audrey Hepburn. Uno dei più noti inviati speciali de Il Tempo, mio amico carissimo, Vero Roberti, aveva una moglie, Paola, che in prime nozze aveva avuto un figlio, Andrea Dotti, diventato un apprezzato psicologo, e da tempo legato a Audrey Hepburn cui si era unito dopo il suo divorzio da Mel Ferrer. Di passaggio da Roma tutti e due, Roberti aveva pensato di invitarmi a cena nella sua casa a Trinità dei Monti. Una vera cena in famiglia, io il solo estraneo, fatto però sedere alla destra dell'ospite d'onore che, appunto, era «la mia nuora Audrey», come ci teneva a chiamarla Roberti. Una conversazione, naturalmente, solo sul cinema, ben accolta da lei che, avendo avuto ampie garanzie sul mio riserbo (difatti, questa, è la prima volta che ne scrivo), lasciò che commentassimo insieme i suoi film da cui più ero stato colpito. Non solo «Vacanze romane» e «Sabrina» (ormai, già allora, erano un discorso quasi retorico), ma in modo particolare «Storia d'una monaca» che mi aveva quasi commosso. Si illuminò e tenne subito a dirmi la sua gioia per quella mia affermazione. «Ci ho lavorato molto - precisò - ci ho messo tutta me stessa perché era la prima volta che mi cimentavo in un personaggio veramente drammatico, ma il risultato non ha soddisfatto tutti, forse, appunto, perché da me si aspettavano solo parti sorridenti e leggere». Come in «Colazione da Tiffany», pensai di insinuare. «Sì, ma quel film l'avevo visto molto più aspro, avendo letto il romanzo di Capote che era solo graffi. Blake Edwards, invece, li aveva sostituiti con delle carezze, così ho finito per esser contenta quasi soltanto di un'unica sequenza, quella in cui canto "Moon River" vestita con un abito firmato». Istintivamente guardai cosa indossava: un semplice abitino grigio, di lana, una sciarpa di seta al collo, un filo sottile di perle. Ma quanta luce nei suoi occhi, quanta gentilezza nei suoi modi, quanta grazia nel suo inglese che, nonostante Hollywood, non aveva perso per nulla l'accento british! Salutandomi, sul portone di casa Roberti, ancora una riflessione: «D'ora in poi, visto che ha amato certi miei film, non vorrei deluderla. Sto per rinunciare quasi del tutto al cinema per occuparmi in Africa dei tanti diseredati di cui ha cura l'Unicef». Mantenne la parola fino a quando non si scoprì malata. E per morire allora andò in Svizzera. Dov'era nata.