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Un eccesso di stile nel film di Tom Ford

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Perfarlo ha scelto un romanzo di Christopher Isherwood, «Un uomo solo», pubblicato anche in Italia da Adelphi, che faceva il punto sulla solitudine di un uomo, docente in un college di Los Angeles, vissuto per anni insieme con un compagno un po' più giovane di lui, perso all'improvviso per un incidente d'auto. Un giorno intero, l'ultimo nella vita del protagonista perché, non sopportando il vuoto attorno, ha deciso di uccidersi. Prima il risveglio mesto, commentato dalla voce fuori campo che, sulla base del romanzo, ne descrive la desolazione, poi l'insegnamento, qualche contrasto con gli studenti, la vicinanza di uno di loro che sembra volergli imporre la sua presenza, una cena con un'amica con cui, molti anni prima, aveva avuto una relazione fugace, poi di nuovo il giovanissimo allievo che però lo rasserena solo marginalmente. Il resto, prima di lui, lo deciderà il caso... Ford ha raccontato tutto tenendo prioritariamente conto dell'eleganza formale: le cornici, gli incontri fra i vari personaggi, il disegno quasi astratto del carattere del protagonista con indicazioni solo asettiche del suo dolore, ripetute con lo stesso distacco nella rappresentazione del confronto con i suoi ricordi; arrivando a una stilizzazione così eccessiva delle situazioni e dei temi che le portano avanti da rasentare in qualche momento la calligrafia e il suo esercizio unicamente esteriore. Un eccesso che smorza i possibili impeti di una storia che invece vorrebbe essere drammatica non solo per l'incidente mortale da cui prende l'avvio e il minacciato suicidio finale, ma per l'epoca ansiosa in cui si svolge, quel '62 in cui, la questione di Cuba faceva temere che si fosse alla vigilia di una guerra nucleare. Se il film comunque si fa seguire, a parte la singolarità del suo argomento, lo deve soprattutto all'interpretazione di Colin Firth protagonista: composta, interiorizzata, sommessa. All'insegna quasi solo dello sguardo.

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