«Devono vederla i politici»
Per Beppe Fiorello è più che una scommessa. Perché sì, a film in costume, fine Ottocento o primi Novecento, quella sua faccia un po' d'antan s'addice benissimo. Ma qui non c'è l'agiografia di Giuseppe Moscati, di Salvo D'Acquisto. Non c'è Joe Petrosino. E «Fiorellino» non è neanche il venditore di dollari nella «Baaria» di Tornatore. Ne «Lo scandalo della Banca Romana» in onda domani e lunedì su Raiuno, Fiorello è il giornalista che solleva il coperchio sul pasticciaccio dell'istituto di credito che stampa banconote a iosa, perché a forza di finanziare i palazzinari della fresca capitale del Regno Unito, ha svuotato le sue casse, e allora tenta di salvarsi con banconote cartastraccia. In quella fin de siècle languida e ambigua, popolata di ingenui, donne fatali e lestofanti (tra gli altri interpreti Lando Buzzanca, Andrea Osvart, Ramona Badescu, Maurizio Mattioli) c'è uno squarcio di oggi. Dice galvanizzato il quarantenne Beppe Fiorello: «Il crac della Banca Romana è un fatto di cronaca moderna travestito da Ottocento, con abiti lunghi e basettoni. Il giornalista che io impersono, una figura inventata che si innesta sulla storia con la A maiuscola, è la quintessenza dell'uomo comune che ambisce a fare bene il suo lavoro. Deve dire la verità sul malaffare politico-economico. Un cancro ancora radicato nel nostro Paese». Facile per Fiorello elencare gli ultimi fattacci: «Gli scandali Cirio, Parmalat, per esempio. Dove hanno pagato i piccolissimi investitori. Insomma, il film, e quel che avvenne nel 1893, è una copia da carta carbone dell'attuale situazione italiana e mondiale, in cui capita che la politica faccia l'occhiolino all'economia sporca. Poi, quando c'è il crollo, tutti alzano le braccia dicendo che è colpa del sistema. Devono vederla soprattutto i politici, questa fiction. Per non cadere nei soliti errori». Incalza Stefano Reali, il regista: «Sono più di cento anni che la Banca Romana viene citata come il più emblematico esempio di certo malcostume politico-finanziario italiano. Quando scoppiò Tangentopoli, i due episodi sembrarono simili. Di fronte a vicende simili, la mancanza di indignazione, la comparsa di un sorrisetto acquiescente di rassegnazione al fatto che, come si dice, "non siamo un Paese normale" dovrebbe farci riflettere. Il nostro protagonista è portato a pensare che, se tutti sono colpevoli, nessuno è colpevole. Un grande imbroglio, con un finale inammissibile. Per questo ho impostato la regia come se avessi a che fare con un thriller».