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Dalla: "Dio è dentro me"

Lucio Dalla

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«Purtroppo non ho potuto partecipare all'incontro del Papa con gli artisti nella Cappella Sistina. Ero su cinque/sei cose contemporaneamente. Ho visto Benedetto XVI a Loreto durante l'incontro coi papaboys». Parla Lucio Dalla, uno dei «mostri sacri» della canzone italiana. Un artista che, perso l'istrionismo di un tempo, ha avuto il coraggio di andare in profondità. Il Lucio Dalla di oggi è un affabulatore dello spirito. Un guru dell'anima. Oserei quasi dire un «missionario del pentagramma», un «giullare di Dio». È d'accordo su quanto ha detto Benedetto XVI che l'arte, quindi anche la musica, è «epifania della bellezza di Dio»? «Assolutamente. A prescindere dal fatto che l'abbia detto il Papa. Sono convinto di questo, perché è uno dei regali che il cielo fa alla nostra anima. Questa è una delle fonti della nostra ispirazione». È «esperto» di Papi. Ha cantato al concerto eucaristico di Bologna davanti a Giovanni Paolo II. Il primo concerto rock con un Papa presente. C'erano anche Celentano, Morandi, Bob Dylan, Petrucciani. «Quello fu uno dei grandi incontri della mia vita[/RISPOSTA][RISPOSTA]. La serata fu straordinaria anche per le emozioni che ci trasmise. Ho ancora negli occhi lo sforzo di Giovanni Paolo II di alzarsi per andare incontro a Petrucciani e quello di Petrucciani di salire, senza riuscirci, i gradini, che lo separavano dal Papa. Ci fu solo un abbraccio a distanza. Ho cantato per Papa Wojtyla in S. Pietro e alla Sala Nervi in Vaticano». Ed è riuscito a dirgli qualcosa? «Non molto. Mi sono stupito per l'affabilità del Papa nei confronti delle manifestazioni artistiche. Lui che aveva fatto l'attore, che aveva una bellissima voce. Stavo per musicare dei testi di Wojtyla. Io sono credente...».   Credente ma forse non praticante... «No, sono assolutamente "praticante", magari con grande sforzo, ma praticante». Questa, mi perdoni, non me l'aspettavo. «Io non perdo una messa, perché è l'unico obbligo "tecnico" della mia fede. La vivo come una piccola costrizione, ma fa parte del mio rapporto senza interruzione col mio credere». Le sue canzoni sono sempre canzoni evocative. Più che non la rima cuore-amore con una spruzzatina di sesso, ci danno atmosfere. Sono mondi, visioni della vita. Possiamo definirle così? «Anche secondo me. Non sono neanche punti di vista che sono una forma riduttiva, anche se precisa. Ho sempre cercato di interpretare l'aspetto più umano, più legato agli uomini, quindi, legato a Dio. Mi sento dentro un'ampolla che mi connette con l'esterno. Di notte vado a concentrarmi sulla terrazza di casa mia a Bologna. Non c'è niente che mi divide dal cielo, neanche dal cielo che ho dentro. Le cose mi ronzano intorno: il fischio di un treno lontano, l'abbaiare dei cani, la sirena di una croce rossa, suoni e visioni. Non vorrei essere sacrilego: comincio con le preghiere classiche, dopo viene questo "mantra". È un'unione di segni che mi danno una grande piacevolezza e pienezza di spirito, è il momento artistico. E ciò parte dalla convinzione che dentro ogni uomo c'è Dio. Non è un dubbio, è una certezza. Dentro di me c'è il mio Dio. È un'unione spirituale che avverto ogni volta che mi metto a pregare». Prima togliamo i crocifissi, poi i presepi. E poi? «Io giro con il mio rosario da boyscout e, vicino al mio rosario da boyscout ho una stella di David. I segni rafforzano la convinzione e credo che un segno così preciso è fondamentale nella nostra comunicazione. Fa parte del nostro DNA. Quando Attila venne a Roma per metterla a saccheggio fu fermato da Papa Leone I che innalzava una croce grandissima. Gli unni si fermarono, memori del fatto che, quando pregavano, piantavano nel terreno le spade con l'elsa a forma di croce. Il simbolo è stato più forte della vendetta e della sete di conquista. Attila non poteva combattere contro quel simbolo davanti al quale il suo popolo si prostrava. E girò il cavallo e se ne tornò indietro. Per chi crede nello spirito di Dio fu un miracolo. Il linguaggio simbolico funzionò. La croce è la nostra cultura e mi piacerebbe che accanto alla croce ci fosse la stella di Davide e la mezzaluna dell'Islam». Il ritratto che esce da questa conversazione mi lascia stupefatto. Chi avrebbe immaginato un Lucio Dalla così! «Guarda, sono fortunato. La dinamica dell'uomo è questo processo di maturazione o di semplificazione del proprio "io religioso". Non riesco a capire il fenomeno dell'ateismo, che non vuol dire vivere senza Dio, ma, in modo infantile, non pensarci, o vederlo dall'altra parte del fiume. E invece Dio è talmente dentro di noi». Potrebbe usare la frase di Sant'Agostino: «Il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te». «Non c'è dubbio! Ho anche l'ambizione di dire che qualche volta, Cristo, che sento vicino a me più di qualsiasi altra forma, possa anche riposarsi o mettere un orecchio alle cose che faccio (ride)...per migliorarle, eh!...mica per imparare!» Magari in prima fila per ascoltarla... «Spero proprio di sì!»

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