Sgorlon e le sue leggende che spiegano il marcio di oggi
L'ultimavolta che ho ricordato in pubblico Carlo Sgorlon è stato a Manosque, in Provenza, all'annuale incontro degli amici di Jean Giono. Pensavo che gli amici dell'autore dell'«Ussaro sul tetto» avrebbero potuto anche essere amici dell'autore del «Trono di legno». Sgorlon, nel suo Friuli, è stato uno scrittore della famiglia di Giono e di quanti, abitando in un territorio limitato, periferico, di confine, sono riusciti mirabilmente a farne un territorio dell'anima, una fonte ricchissima di ispirazione, una rappresentazione alta e drammatica, e nondimeno felice, della condizione e del destino dell'uomo. Grande narratore naturale, epico, fluviale, innamorato della tradizione e del mito, sensibilissimo al sacro e al divino, Sgorlon sin dall'inizio si trovò isolato in Italia. Non gli mancarono i successi, ebbe lettori e premi in quantità. Era capace di toccare temi arcani e di grande attualità, parlava di antiche leggende e della condizione della natura oggi, natura di cui si propose subito come appassionato difensore contro gli scempi della industrializzazione e dello sfruttamento. Era affascinato dal tema delle migrazioni di popoli, seppe trattarne con una potenza epica e visionaria davvero biblica. Anima religiosa, cultore della civiltà contadina, non nascose mai di essere un conservatore. Ricordo in certe nostre conversazioni, durante i nostri incontri rari ma sempre così ricchi di comunicazione e di simpatia umana e intellettuale, la sua ammirazione per il lavoro artigianale ben fatto, per chi sapeva costruire un muro con le proprie mani, per madri che partorivano e nutrivano con amore numerosi figli. Era un conservatore atemporale, anarchico, un uomo che poteva parlare con la voce di Omero e di Mosé. Ed era un uomo libero, capace di andare sino in fondo nelle sue idee, di coltivare sino in fondo la sua poetica. Perché Sgorlon non fu quel semplice affabulatore popolare che una certa critica volle vedere in lui. Sgorlon, e fu la prima cosa di cui parlammo quando ci conoscemmo, più di venti anni fa, aveva una concezione letterariamente alta del romanzo e della letteratura, che però entrava in collisione con le idee correnti, con il conformismo diffuso, con le conventicole dominanti. Sgorlon aveva elaborato una visione epica, mitica, propositiva dell'attività dello scrivere. Nella sua casa di Udine, sdraiato sul letto, come mi raccontò una volta, lavorava ininterrottamente, potentemente, a pagine che comunicassero emozioni, passioni, avventure, anche corali, ancestrali, legate a tradizioni e culture lontane e da disseppellire dall'oblio. Oltre all'epopea mitica e contadina del «Trono di legno» e «Gli dèi torneranno», affrontò anche le tragedie della storia, come quella terribile delle foibe di Porzùs nella «Malga di Sir», e in uno dei suoi ultimi grandi romanzi, «L'alchimista degli strati», partì dal suo Friuli per toccare paesi lontani come gli Emirati Arabi e temi come quelli delle risorse energetiche e del rapporto con l'Islam, rivelando più freschezza e più lungimiranza di tanti romanzieri oggi di moda. Nella sua autobiografia intitolata «La penna d'oro» manifestò la sua delusione per una società letteraria che non gli riconosceva un ruolo adeguato, per un Friuli che lo dimenticava. Ne nacque, a dire il vero anche un po' per causa mia, una polemica molto accesa. Era la posizione di Sgorlon, era il suo non essersi mai schierato dalla parte del pensiero omologato e conformista della sinistra culturale che aveva provocato certe diffidenze e certe dimenticanze? E allora venne fuori chiaramente che Sgorlon non era di nessuna parte. Come tutti gli uomini liberi, come tutti gli scrittori veri e onesti, perseguiva le proprie idee incurante di convenienze e di obiettivi di potere da raggiungere. A me mancherà moltissimo un interlocutore come lui, con cui potevo intendermi, nonostante la diversità di certe posizioni, sui temi essenziali del mito da far rivivere, della natura da salvare, dell'umanità da trattenere sul ciglio del nichilismo e della disumanizzazione. Mi mancherà quella sua voce ultimamente affaticata ma ancora un po' rotonda e baritonale, quella sua apertura generosa verso il mondo, quella sua limpida fedeltà a se stesso.