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Quei cori rabbiosi alla Scala

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La Scala di Milano, in scena la Carmen con Anita Rachvelishvili

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Due cori si sgolavano davanti alla Scala. Il primo stonava raucamente uno slogan assai poco profetico: «Borghesi, vi restano pochi mesi». L'altro, raggelante, salutava gli spettatori del "Don Carlos" verdiano con un «I braccianti di Avola vi augurano buon divertimento». Accadeva 41 anni fa: cinque giorni prima di quel 7 dicembre, durante un tumultuoso sciopero generale fra gli agrumeti siracusani, due contadini erano rimasti uccisi nelle cariche della polizia. Ma alla fine di quel fatidico, controverso Sessantotto, chiunque avesse la colpa di non appartenere al proletariato (o di non sentirsene indebitamente parte, come aveva ricordato Pasolini agli inquieti ragazzi-bene di Valle Giulia) veniva chiamato a correo di strategie di prefetti e vicequestori che agivano a centinaia di chilometri di distanza. I contestatori scaligeri mirarono con uova (non marce, beninteso) e cachi le pellicce e gli smoking dei milanesi melomani: ma erano poche centinaia, «una miseria rispetto alla nostra normale capacità di mobilitazione», sottolineò poi l'allora leader studentesco Mario Capanna nel libro "Formidabili quegli anni". A fare da cassa di risonanza fu, per la prima volta, la televisione. Capanna aveva preso un megafono per arringare i poliziotti che «per un salario misero proteggevano i ricchi», scrisse. A quel punto «saranno le 20.15, gli operatori della Rai-Tv, che trasmettono in diretta l'evento, hanno l'idea, provvidenziale per noi, di far sentire per un attimo le voci della piazza. Molti studenti a casa, che non sapevano nulla della contestazione, restano con il cucchiaio della minestra a mezz'aria sentendo dal televisore la voce metallica del megafono. Schizzano via come saette verso piazza della Scala. Un'ora dopo siamo quadruplicati». Si creava così, viaggiando ad altissima velocità sui fili scoperti della tensione sociale, il primo corto circuito mediatico della tensione sociale. Con la Scala come insostituibile fondale per ogni causa da amplificare in video, meglio se in mondovisione. Da lì, quattro decenni di ostracismo apparentemente stradaiolo, ma senza efficacia una volta spente le telecamere, non appena entrati i privilegiati nel foyer. Ogni ragione politico-sindacale, ma anche i minimalia di costume e sparsi esibizionismi hanno trovato motivazione davanti al teatro del Salvemini, sperando in un'inquadratura, in un flash, in un appunto sul taccuino del cronista. L'amplificazione: quella di cui non ha bisogno l'orchestra, ma la performance "contro" nella società dello spettacolo. Nel '76 i Circoli della sinitra extraparlamentare rivendicarono un comico «diritto al caviale», specificando «perché siamo arroganti», in un faccia a faccia tra visoni e visionari. In tempi recenti ecco emergere questioni più serie: i «No Tav», le animaliste seminude, i vegetariani, gli amici della terra. Nel 2000 il conflitto si spostò tra palchi e platea, come in una decentrata Montecitorio, e la destra governante in Lombardia a boicottare la «sfilata elettorale» degli otto ministri di Amato presenti al «Trovatore» con Muti. Ieri, per la "Carmen", il dentro-e-fuori si è puntualmente riproposto: con il frusto rituale dei lanci di uova (poche, ma neppure queste marce), i petardi sotto la pioggia, le grida di «buffoni» e «vergogna» agli entranti. E qualche reggicoda del demi-monde gossiparo se le sarà pure meritate. Perché a protestare erano quelli che rischiano il lavoro, e lì c'è poco da giubilare. Gli operai dell'Alfa di Arese (con fantoccio di Marchionne "diavolo": «non è un santo che fa miracoli», suggeriscono) o quelli di Pomigliano, i lavoratori della Tenaris o della Metalli Preziosi. Ci sono stati tentativi di sfondare le transenne, e i centri sociali con i fumogeni rossi. Il tragico e il grottesco delle alleanze trasversali che si mischiano sempre nell'improvvisazione della «controprima» scaligera, almeno finché non si allontanano i cameramen. Ma nel dentro-e-fuori della protesta, stavolta c'erano anche musicisti e dipendenti degli enti lirici. In piazza Scala, uno striscione trasformava l'acronimo Fus (Fondo Unico dello Spettacolo) in Fine dell'Ultimo Spettacolo. Nel golfo mistico, l'orchestra diretta da Barenboim si disponeva a un minuto di silenzio prima dell'Inno di Mameli. Contro la crisi e per solidarietà ai cassintegrati. Tutti i notabili e i politici presenti, indistintamente, commentavano: «Una giusta iniziativa». Come se invece dell'opera di sangue, sensualità e morte di Bizet, si assistesse alla rappresentazione di un Requiem, di un Dies Irae della musica colta in Italia. E tristemente, appare così. Perché se la Finanziaria 2010 sembra destinare qualche milione in più nei fondi per la cultura (si dice 465, contro i 447,8 del 2009) siamo ancora molto al disotto delle risorse necessarie per risollevare un settore agonizzante, dal punto di vista manageriale e organizzativo. Con 14 enti lirici chiamati a gestire costi elevatissimi (il 70 per cento in media riguarda il personale) e scarse prospettive di contare davvero su sponsor privati, come voleva la legge del '98 dell'allora ministro della Cultura Veltroni, che trasformava gli enti in Fondazioni a sovvenzione mista. Per la Scala, nel cui cda pure siedono i banchieri, i mecenati e gli imprenditori "dinastici" si allontanano nel momento in cui si parla di elevarla al rango di teatro nazionale. Nella società mediatica, la lirica è vista come un residuato culturale per pochi, vecchi tromboni. Ma all'anteprima per i giovani, la sigaraia di Bizet ha fatto il pienone. Con un gradimento maggiore del "Grande Fratello". Si potrebbe ripartire da qui. Spegnendo la tv e riempiendo di ragazzi i loggioni.

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