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Lorenzo Tozzi La Carmen di Georges Bizet è uno dei titoli più popolari della lirica mondiale.

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Operameritoriamente inaugurale, quindi, attesissima alla Scala sia per la direzione del prediletto Daniel Baremboim, sia soprattutto per la inedita regia della palermitana doc Emma Dante sinora più avvezza al teatro di parola di tipo sperimentale che a quello lirico, affiancata qui dallo scenografo principe Richard Peduzzi. Si sapeva sin dalla vigilia che sarebbe stata una Carmen non folkloristica, non oleografica, affatto spagnola, insomma priva di tutti gli orpelli del colore locale: Ventagli, banderillas, nacchere e sgargianti gonne colorate. Infatti vi scompare ogni preciso riferimento ambientale sostituito da muri anonimi ma severi, con un coro ìdanzante” mescolato agli attori ed ai mimi della compagnia palermitana della Dante, che compie qui il gran salto da uno spettacolo "povero" agli exploits pirotecnici della lirica. La scena è attraversata qua e là da ingombranti presenze simboliche: un cimitero per il consapevole ed onnipresente senso di morte di Carmen, un sacerdote con chierichetti per la casta voglia di imeneo della tradizionalista Michaela, oculato antidoto alla trasgressiva protagonista. La Dante porta insomma in scena ciò che conosce bene, ovvero la sua Sicilia con i suoi sovraccaricati simboli di una religione pietrificata (una croce sbilenca, turiboli, processioni), con un cielo nero a fare da fondale, le masse che si muovono chiassosamente nella piazza, ampi patii avvolti quasi interamente dalla penombra, tarantolate sigaraie che smettono una sorta di abito claustrale per rimanere in sottoveste per rinfrescarsi nella fontana, contrabbandieri in odore di mafia con vistosi coltelli a serramanico. In quest'opera protofemminista la Dante insomma non si limita però ad esplicitare elementi drammaturgici accennati nel libretto, ma anche arriva a sovrapporre una sua ben chiara chiave di lettura quasi controriformistica ed anticlericale, spesso forzata, al dramma in musica (proposto giudiziosamente nella veste originale di "opéra comique" con commistione di "numeri" musicali e di parlati come nella prima versione del 1875) come nel finale con la non richiesta violenza inferta alla donna dall'inarrestabile disertore. Il movimento delle masse, sempre più registico che coreografico, appare sempre nevrotico, l'atmosfera per lo più cupa e sinistra, gli ambienti sudici e miserevoli, il movimento d'assieme spesso ridondante e pleonastico. Nel cast svetta la voce giovane dell'esordiente mezzosoprano giorgiano Anita Rachvelishvili, una rivelazione nei panni della focosa e provocante sigaraia, carnosa e sensuale quanto basta, contesa dagli interpreti maschili Jonas Kaufmann (un impulsivo Don José) e Erwin Schrott (un fiero Escamillo), mentre Adriana Damato era una meno personale Michaela tutta in nero. Eccellenti le prove di coro e orchestra magistralmente diretti da un Baremboim particolarmente motivato ed in stato di grazia. Trionfali le accoglienze finali a tutti gli artisti, con sonore contestazioni alla regista.

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