Negli inferi della maternità e ritorno
Indaga,Dora Albanese, come essere madre, e donna, in otto racconti, che paiono l'uno la prosecuzione dell'altro. Dove l'accettazione di un bambino, il dirgli finalmente a mamma, è l'accettazione del passato, del paese, delle consuetudini, dei racconti di una nonna, dei preconcetti, del dolore che imbeve la terra d'origine. Ed è l'accettazione di se stessa che a quel mondo ha dato un calcio senza però liberarsene mai. E però questa discesa esistenziale dentro di sé non usa mai paroloni, pagine finte. Incede nelle intromissioni del dialetto, negli odori degli interni, della pelle, nei colori delle cose di tutti i giorni, le stoviglie e l'abito. «Non dire madre» è l'imperativo di una giovane donna consapevole che è finito per sempre il tempo di essere figlia. Lo iato è doloroso, ma mai struggente. Come se, a venticinque anni, si sia ormai prosciugato il serbatoio delle lacrime. Ma è la conditio sine qua non per vivere. «Ebbene sì, l'ho detto a tutti che è bello e che è mio, che l'ho accettato pur non avendone ancora voglia, ho dovuto superare la prova, e l'ho detto, ecco, l'ho detto: "Bello di mamma tua". Adesso però lasciatemi in pace e andatevene via tutti», dice la purpera estenuata da giudizi e aspettative dei parenti peggio che dal travaglio. Ci sono donne giovani e donne stanche, in questi racconti. Donne che ancora agli uomini non sanno parlare franche, e allora li spiano dai balconi. Non è, questo spiare, una condizione di una certa parte d'Italia - Matera? - ma una condizione e basta, che capita pure nel palazzone alla periferia di Roma. Per questo Dora Albanese è la voce di tante. Immerse nella quotidianità, in cerca di identità. La acciuffano alla fine, questa identità, quando imparano a non dire madre.