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Federico sognava così

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Lungoil tragitto parlava poco e io stavo zitto, quando però, finita la Via del Mare, si cominciava a vedere il piazzale, subito affrontava i temi in vista dei quali aveva tenuto a vedermi. Certe nuove idee per nuove storie, la richiesta di un mio parere su qualche film cui stava pensando. Una sera, all'improvviso, un esordio inatteso: "Stanotte ho sognato Giulietta. Non come Gelsomina, anche se mi capita spesso, con la tromba e un'aria da clown triste, un po' più cittadina, invece, quasi borghese. Svegliandomi ci ho ripensato. E ho ripensato a quelle buffe parate che si vedono in televisione di gente che va a esibirsi, con l'ansia di farsi conoscere. Ho anche pensato che avrei potuto metterla vicino a Marcello e farne una coppia non più giovane, magari con un passato nel varietà..". Due giorni dopo mi arrivava a casa un suo disegno con una Gelsomina difatti un po' borghese e un nome scritto di fianco: «Ginger». La prima idea per «Ginger e Fred»... M'è tornato in mente, quell'episodio, leggendo un libriccino intitolato «L'inconscio creatore» (Moretti e Vitali Editore), firmato da due analisti, uno francese, Christian Gaillard, una italiana, Lella Ravasi Bellocchio. Alla luce delle teorie di Jung, di cui si professano seguaci, hanno studiato un celebre testo di Fellini conosciuto come «Il Libro dei Sogni» e da lui, fra di noi, definito «il librone». Ho esaminato da vicino molti dei disegni che contiene, ne ho visto un centinaio alcuni anni fa in una Mostra organizzata dalla Fondazione Cinema per Roma che poi, quest'anno, ne ha organizzata una seconda a Los Angeles, nella sede della Academy di Hollywood accompagnata, questa volta, anche da una copia fotostatica del «librone». Quando, alla fine degli anni Ottanta, Fellini mi aveva regalato il disegno di «Ginger e Fred», seguito, un po' più in là, da altri due fatti per «La voce della luna», il suo ultimo film, aveva smesso di tenere quasi quotidianamente quel suo diario a disegni che pure aveva tenuto fino ai Settanta. Ho detto «diario», ma giustamente il caro Tullio Kezich nella sua prefazione al Libro dei Sogni scrive: "Non è un diario. Non è un romanzo. Non è un comic-book. Non è lo storyboard di un film. Non è una silloge di racconti, né una sintesi pittorica. È tutte queste cose insieme e altro ancora". È attorno a "tutte queste cose insieme" che hanno lavorato i due analisti, il primo mettendo bene in evidenza i sintomi di una depressione volutamente non curata perché coadiuvante della creatività (quasi riecheggiando Thomas Mann); la seconda considerando la doppia figura femminile pronta a emergere da quei disegni (e, dopo, dai film che anticipavano) la donna madre, madonna, Giulietta (spesso malata, sentita come un rimorso), la donna sesso e puttana, emblema dell'istinto. Il risultato, specie per i nessi fra i testi e i disegni cui arriva, anche per me che pure di Fellini pensavo di sapere quasi tutto, è in più punti addirittura illuminate. Quando, per esempio, rifacendosi a quei quattro anni di analisi con Ernst Bernhard da cui, inizialmente a sua richiesta, era scaturito il Libro dei sogni, ci racconta, date alla mano che Fellini, alcuni mesi prima che avvenisse, aveva "sentito", scritto e disegnato proprio la morte dello stesso Bernhard, e quando, elencando le tante raffigurazioni di disastri, incidenti aerei, minacciosi sottomarini in emersione, evoca quello spettro del film mai realizzato, "Il viaggio di Mastorna" di cui, comunque, dice meno di quello che risulta a me, testimone diretto delle angosce di Fellini di fronte a quella "discesa agli inferi", come la chiamava, da cui tanto più fuggiva quanto più invece ne era morbosamente attratto. Un presentimento? Lo lasciano intuire anche i relativi disegni a Giulietta, pronta a perseguitarlo fino alla fine. Eccola infatti effigiata ancora una volta come Fatina Azzurra, ma sul letto di morte nella "stanza dei premi" (la ricordo quando abitavano a via Archimede) e lui in lacrime davanti a lei... Poi arrivò quell'agosto del '93, l'ictus che colpì Fellini a Rimini. Preso poco sul serio da molti, da lui per primo. Quando gli telefonai impaurito mi disse ironico: "Ho la sinistra che non si muove, mi hanno detto di rianimarla un po', così la stringo con la destra e dico "Piacere Fellini!". (Era il giorno in cui Benigni, anche più ironico, era andato a trovarlo vestito da cardinale...). Arrivò lì però la notizia che Giulietta stava molto male ed ecco Fellini, nonostante il divieto dei medici, lasciare il letto e precipitarsi a Roma in automobile. Le aveva dato appuntamento al suo prediletto ristorante emiliano, "Da Cesarina", ma quel giorno era chiuso. Ramingarono perciò in giro per Roma, lui, forse, con l'incubo di quei rimorsi che affioravano dai suoi disegni. Tornato a Rimini, però, ci restò pochissimo. Si era aggravato e in fretta lo riportarono a Roma, questa volta al Policlinico. Avrei rivisto solo la sua bara, al Teatro 5 di Cinecittà, vegliato da due Carabinieri in alta uniforme. Finito il viaggio di Mastorna.

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