In fuga dalla Romania per diventare una «persona»
Daun punto di vista critico, tuttavia, qualche merito ce l'ha perché il suo regista, Bobby Paunescu, ha studiato cinema negli Stati Uniti e quell'insegnamento, almeno in parte, sembra averlo recepito. Ecco così Francesca, come annunciato dal titolo. Ha trent'anni, vive con la madre, insegna in un asilo, non ha vere necessità pratiche, ma non si ritrova, è oppressa (ora che, attorno, non c'è più l'oppressione), anela a diventare una «persona». Ci riuscirà in Italia? In molti la dissuadono anche perché sanno l'avversione di molti italiani nei confronti degli emigranti rumeni, ma lei è decisa e, versati 2.000 euro a un sedicente funzionario di un ufficio per l'emigrazione, organizza il suo viaggio. Fiduciosa che il ragazzo cui è legata da tempo la seguirà al più presto. Ma il nodo è lì e tutto si risolverà in una catastrofe. E non in Italia, a Bucarest. Paunescu non ha taciuto, ad ogni svolta del suo racconto, l'intenzione di dar rilievo soprattutto ai motivi morali che inducono tanti rumeni a partire e poiché, appunto, la loro chiave va letta nel vuoto e nella immobilità della vita oggi nella Romania post-comunista, questo vuoto e questa immobilità si è ingegnato ad esprimerli attraverso i suoi modi di rappresentazione. Scene fisse, tenute a lungo, la macchina da presa quasi ferma, le immagini affidate di regola a «campi lunghi», mai interrotti, anche nei dialoghi più concitati, dai sistemi tradizionali del «campo» e «controcampo», proponendo i tanti scontri verbali che costellano l'azione quasi solo a distanza (appunto con i «campi lunghi», arrivando a mostrare una scena di sesso fra la protagonista e il suo ragazzo attraverso una porta che si affaccia in un'altra stanza, lontano. Pur affidando sempre il tutto a toni e climi realisti. Si potrà esserne perplessi (quel cinema sembra negare, a volte, l'essenza stessa del cinema), ma le motivazioni, ideologioche ed estetiche, sono evidenti. Almeno in un certo senso.