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Quarant'anni fa, settembre 1969, usciva il primo "Meridiano": «Tutte le poesie di Giuseppe Ungaretti», a cura di Leone Piccioni, suo amato allievo.

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Ilprimo "Meridiano" è, ancor oggi, il più venduto, perché - come scrisse Vittorio Sereni alla scomparsa di Ungaretti - "mi sono sentito suo figlio e come un figlio ho vissuto e sofferto le sue illuminazioni e le sue furie, le sue divinazioni e i suoi errori: un po' come per l'Italia, perché Ungaretti era, e come, una versione dell'Italia. Portava attorno con sé, nella sua sola presenza, un dono sempre più raro: la memoria, oscura e lacerata fin che si vuole, di una gioia d'origine". La Collana era allora diretta da Giansiro Ferrata, uno degli uomini di gusto letterario più fine del Novecento, ed oggi da Renata Colorni, che con le sue traduzioni ha portato in Italia il pensiero di Freud e di molti altri classici del Novecento. Riproporre dunque il "Meridiano" Ungaretti, che senso ha oggi? Non solo si tratta di un aggiornamento filologico indispensabile: molti abbozzi di poesie "disperse" sono state pubblicati dopo la sua morte, così molti e importanti carteggi che illuminano un quadro europeo (da Jean Paulhan a Philippe Jaccottet) necessario per comprendere il Novecento. Soprattutto si tratta di consegnare al XXI secolo una voce per un tempo che non avrà più patrie, ma una sola patria, il mondo. Poeta di tre continenti, di echi della melopea araba e poi della favole indie della Genesi, Ungaretti poteva già agli esordi definirsi, profeticamente, "un frutto/ d'innumerevoli contrasti d'innesti". Come molti degli artisti delle avanguardie del primo decennio del secolo XX, cercò essenzialità: chi "defigurando" un descrivibile ormai preda della fotografia (Picasso, i Futuristi), chi rivendicando alla poesia un ruolo profetico, ai limiti di follia (Campana, soggiogato dal mito di Nietzsche), chi - come Proust o Rilke - facendo di sé e della propria opera la memoria della civiltà d'Europa; Ungaretti isolando sillabe, leopardiani specchi d'infinito: "Appisolarmi là/ solo/ in un caffè remoto/ con una luce fievole/ come questa/ di questa luna" (Bosco Cappuccio, 1916). Nato ad Alessandria d'Egitto, crocevia e crogiolo di lingue e civiltà, nel 1888, Ungaretti è alla Sorbona e al Collège de France ad ascoltare Bergson, a discutere d'arte e di poesia con Apollinaire, Modigliani, Picasso, Breton, mentre Montale legge i libri che gli arrivano dalla sorella e da padre Trinchero: «Basi culturali incerte. A 20 anni leggevo Rousseau, Nouvelle Éloïse, un po' di Boutroux quasi niente di Bergson...». Ciò spiega anche perché Montale abbia avuto così tanto successo nella nostra critica e Ungaretti così poco: poiché Montale è lo specchio esatto della formazione letteraria di un italiano, mentre Ungaretti scrive Roman cinéma nel periodo del soggiorno parigino per emulare Cendrars che componeva poemi sul giovanissimo Chaplin e sulla nuova arte visiva del movimento. Ungaretti serve oggi a riconsegnare l'Italia all'Europa, che lo ha conosciuto e amato attraverso le traduzioni dei più alti dei poeti contemporanei: Pierre Jean Jouve e Philippe Jaccottet, Ingeborg Bachmann e Paul Celan. Ungaretti serve a ridare, attraverso le sue traduzioni e i suoi saggi, la linea portante del "canone occidentale": Dante, Petrarca, Shakespeare, Góngora, Racine, Blake, Leopardi, Mallarmé, Valéry; profezia e visione, grido e sillaba, ma universo sempre: "Ci vuole un secolo o quasi/ - fiammeggiava Ungaretti sulla porta/ della Galleria Apollinaire -/ ci vuole tutta la fatica tutto il male/ tutto il sangue marcio/ tutto il sangue limpido/ di un secolo per farne uno..." (Vittorio Sereni, Poeti in via Brera: due età). Questo volume, che ho avuto l'onore di curare, sarà seguito il prossimo anno - nei quarant'anni dalla morte del poeta - dall'universo contiguo del "Meridiano" delle sue traduzioni: insieme formeranno il percorso sapienziale, da Virgilio a Finestra del caos di Murilo Mendes, di ciò che l'umanità ha sperato e patito attraverso la parola. La poesia di Ungaretti comincia appena a nascere - "troppo tesa corda musicale" - alla nostra percezione di cittadini di una civiltà europea del XXI secolo. Da Pascal a Bergson, da De Chirico à Fautrier, da Essenin a Páu Brasil, da Góngora a Shakespeare, quella parola è cresciuta nell'illimite degli abissi di coscienza. Solo tra qualche decennio, essa potrà essere letta come familiare: quando dai lavacri d'oblio soli resteranno, del XX secolo, i poeti - Eliot e Ungaretti, Mandel'štam e Celan - della Waste Land e della Terra Promessa. * Accademico dei Lincei

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