Francis Coppola critica Garrone e snobba lo sfarzo di Hollywood
TORINO - È sbarcato lunedì pomeriggio all'aeroporto di Caselle con il suo aereo privato, tutto giallo, il regista americano e premio Oscar Francis Ford Coppola. È lui il personaggio più omaggiato del Torino Film Festival diretto da Gianni Amelio: ieri, Coppola ha presentato al cinema Ambrosio l'anteprima italiana di «Segreti di famiglia» (Tetro), film in bianco e nero già selezionato allo scorso festival di Cannes. Il regista della indimenticabile trilogia de «Il Padrino» riceverà il Gran Premio Speciale del Tff per la sua casa di produzione Zoetrope, fondata con George Lucas vicino San Francisco. Stasera, sempre a Torino, Coppola presenterà la versione restaurata di «Scarpette rosse» (1948) di Michael Powell e Emeric Pressburger, mentre domani si trasferirà ad Alba per ricevere il Tartufo d'oro e sabato sarà a Milano ospite di Fabio Fazio nella trasmissione «Che tempo che fa». Coppola, come vive questa full immersion tutta italiana un genio del cinema come lei, da sempre legato all'Italia? «Sono felice perché mi sento profondamente italiano, come i miei 4 nonni, tre napoletani e uno lucano. Ed è stata proprio la forza degli immigrati a rendere gli Stati Uniti d'America un grande Paese, costituito al 100% da immigrati che hanno avuto la chance di esprimere il loro talento». Il digitale sarà il futuro del cinema? «Sì, sarà digitale, elettronico. Ed è curioso che mia figlia Sofia si rifiuti di girare in digitale, ma io sono abbastanza vecchio per consentirmi delle innovazioni, che possono nascere ovunque. C'è stata la rinascita del cinema dal Messico all'Iran e spero che ci sarà presto una rinascita anche in Italia: "Gomorra" di Garrone non mi è piaciuto e non basta per parlare di rinascita di un cinema che un tempo era fatto da Rosi, Antonioni, Monicelli, De Sica e Rossellini". Ho sempre avuto un debole per Stefania Sandrelli». I soldi, si sa, condizionano l'industria cinematografica, ma lei come è riuscito a restare indipendente? «Con il cinema ho fatto tanti soldi e ne ho persi moltissimi, ma bisogna avere voglia di rischiare. Oggi con il cinema non guadagno più: i soldi li faccio con il vino e gli alberghi e con questi finanzio i miei film. Sbaglia chi pensa di poter fare affidamento soltanto su tecnologie e 3D. Il cinema è un'arte ricca di mezzi e generi, è un peccato limitarla con i divieti dello star system». Si riferisce alle pellicole in bianco e nero? «Il divieto del bianco e nero arriva dai nemici del cinema: in Usa non si possono realizzare storie drammatiche, ma solo film d'azione, con supereroi o commedie volgari. Gli spazi comunque non sono chiusi, si possono fare buoni film con poco budget, come è successo con "Millionaire"». Il suo film racconta di un giovane in cerca del fratello scomparso da dieci anni: è una vicenda autobiografica? «Non avevo esaurito l'argomento sui legami familiari e ho sempre ammirato nella vita reale mio fratello maggiore. "Tetro" è una storia molto emozionale raccontata in bianco e nero con una sorta di realismo poetico simile a quello di "Fronte del Porto" di Elia Kazan o di "Rocco e i suoi Fratelli" di Luchino Visconti. Qui ho adottato il colore solo per i ricordi nostalgici, sbiaditi come i filmini di famiglia in Superotto. C'è un filo che lega "Tetro" al mio vecchio "Rusty il selvaggio" del 1983, con Matt Dillon e Mickey Rourke. Dillon doveva far parte di quest'ultimo film, ma ha dovuto rinunciare per problemi di produzione. Il direttore d'orchestra interpretato da Klaus Maria Brandauer non rievoca mio padre, che era un compositore, ma si ispira a Herbert Von Karajan. Però c'è anche qualcosa di mio padre in questo film, come il "concerto alla Gregory Peck", una definizione cara al mio amato genitore che si riferiva ad una musica classica un po' finta al servizio della narrazione, che in "Tetro" si alterna alla musica folcloristica argentina».