Canzoni in dialetto, esultano i leghisti
Avremmo dovuto prenderlo sul serio. Si era pensato a un colpo di sole, quando l'estate scorsa Bossi aveva parlato di Sanremo come «simbolo del centralismo», da attaccare a suon di dialetti. Spiegava, il Senatur, che «per cambiarlo, il sistema va preso a cazzotti». E mentre il Palazzo muove a passi lenti verso il federalismo istituzionale, Umberto sposta il Carroccio come una catapulta pop contro gli avamposti dell'italianità: dietro la quale lui scorge la «dittatura capitolina». Così, dopo aver inaugurato la "Cinecittà padana" nella Manifattura Tabacchi di Milano («perché vi si girino film e storie che raccontino la storia lombarda, basta con il romanesco») e dopo aver da tempo proposto il "test della cadrega" per i professori non autoctoni chiamati a insegnare nelle scuole del Nord («troppi docenti meridionali non conoscono le nostre tradizioni»), ecco sferrato l'assalto finale: il Festivalone della canzone italiana. Per la verità, a luglio, il presidente del Consiglio Comunale di Sanremo, il leghista Marco Lupi, si era "limitato" a immaginare una sezione a parte della rassegna canora in cui presentare brani in dialetto. Ma gli organizzatori della 60ma edizione, che si svolgerà dal 16 a 21 febbraio 2010, sono andati oltre. C'era la necessità di tenere botta con il pieno di ascolti del Bonolis 2009, e la sola Antonella Clerici (pur supportata ogni sera da co-conduttori superstar, dallo stesso Paolino a Fiorello e forse Ezio Greggio) poteva non bastare. Ancora, una volta esauriti tutti gli argomenti scabrosi nei testi (Povia aveva toccato il fondo con "Luca era gay"), occorreva un'alzata di ingegno che focalizzasse l'attenzione mediatica attorno a un evento su cui la nuova Raiuno del direttore Mazza rischia quasi tutto. Ed eccola lì, la trovata: nell'articolo 6 del nuovo regolamento è scritto per la prima volta che possono partecipare anche opere che siano «espressioni di cultura popolare, canzoni in lingua dialettale italiana». E zac, in tre righe viene tagliata via non solo la storia del Festival, ma anche quell'operazione (mai conclusa, purtroppo) di promozione e difesa della lingua nazionale che la tv pubblica persegue sin dal 1954, sempre con minor efficacia, grazie anche a presentatori e ospiti che precipitano continuamente nel burrone dei congiuntivi e del turpiloquio. Il problema, naturalmente, non è artistico. Nessuno si sognerebbe di pensare che la "Creuza de ma" di Fabrizio De André non sia un capolavoro di impasti linguistici la cui matrice è ligure, non italiana. E di cantanti capaci di esaltare il dialetto ne abbiamo avuti a decine, nel nostro pantheon musicale. Ieri Mimmo Modugno o Roberto Murolo, oggi Pino Daniele, Franco Battiato, i Tazenda, Carmen Consoli, Enzo Jannacci. O nomi meno noti, come la sarda Elena Ledda, i romani Ardecore. La questione, semmai, è politica: sarebbe tristissimo se la mai trasparente sagra del televoto premiasse - per dire - un idolicchio della Val Brembana solo per contentare quelli che a casa custodiscono l'ampolla con le acque del Po, o che una ballataccia nel gramelot di Pizzighettone esaltasse i crociati della Padania felix. La Lega punta tutto sul folksinger comasco Davide Van de Sfroos, che già si rallegra per «l'abbattimento di questa diga culturale». E il problema è rovesciabile, con la presumibile difesa a oltranza del divetto da campanile, al sud e al centro, qualunque paccottiglia decida di intonare. Ma occhio alla scivolosa ambiguità di quel «canzoni in lingua dialettale italiana» dell'articolo 6. La legge 482/1999 riconosce e tutela dodici minoranze linguistiche «storiche» sul territorio nazionale. A norma di regolamento, sul palco dell'Ariston potrebbero approdare le star dell'Arbereshe albanese, i catalani di Alghero, i croati del Molise, i francoprovenzali di Val D'Aosta e Puglia, gli occitani calabresi di Guardia piemontese, gli sloveni del Friuli, i greci del Salento, i ladini e i tedeschi dell'Alto Adige, i cimbri del Trentino, i bavaro-carinziani di Sappada. Esulta il ministro delle Politiche Agricole, il leghista Zaia: «In barba alle cornacchie e agli elegantoni della lingua, il più importante Festival della canzone si apre alle lingue materne, rompendo un tabù vecchio di 60 anni». Lunare la sottolineatura del Nobel Dario Fo: «Anche diversi canti religiosi di molti secoli fa erano scritti in dialetto e lo stesso Sant'Ambrogio quando si trasferì a Milano e fu eletto vescovo dovette imparare il volgare per farsi capire dal popolo. Per non parlare di Dante Alighieri che nelle sue opere usò tutte le forme dialettali presenti in quel periodo». Peccato che qui si parli del vecchio caro Festival tricolore dei Jalisse e di Marco Carta, mica del suo "Mistero Buffo". A rallegrarsi, anche un manipolo di artisti, da Andrea Mingardi a Enzo Avitabile, e con qualche distinguo Mariano Apicella. Contrari i vertici della discografia: Enzo Mazza, presidente della Fimi, sottolinea che «oggi si dovrebbe favorire l'esportazione della musica italiana nel mondo tramite una grande vetrina del made in Italy invece di trasformare Sanremo in una festa di paese». In molti già notano che ci vorranno i sottotitoli. Ma guai se su quel palco spuntasse, che so, Lando Fiorini con uno stornello trasteverino. Quella, per i fans di Alberto da Giussano e del Barbarossa, è la lingua della dittatura romana.