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Da Facebook a Twitter vogliamo lasciare tracce

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RacheleZinzocchi «Documentalità - Perché è necessario lasciar tracce»: questo il titolo del nuovo libro di Maurizio Ferraris, ordinario di filosofia teoretica all'Università di Torino e direttore di LABONT, Laboratorio di Ontologia. Da Google a iPhone, dai pc agli archivi ".doc" ove registriamo tutto - e noi stessi - la nostra è ormai una "società della registrazione". Si spiega così il successo dei social networks, tra un Facebook che ha già raggiunto il break even coi suoi 300 milioni di utenti e un Twitter da 5 miliardi di tweets pubblicati? «Direi di sì. La nostra società è divisa tra due istinti in competizione: da un lato la ricerca e la tutela della privacy, dall'altro un bisogno di manifestarsi e registrarsi. Facebook rappresenta questo lato della medaglia, ma la tendenza c'è sempre stata. Ogni società è una società della registrazione: senza memoria e iscrizioni non c'è società. Perciò esistono gli archivi, le anagrafi, le banche. Oggi si registra di più - anzi, troppo - perché è diventato molto facile». Per molti i social networks sono auto-terapeutici. Creano una personalità, come se un'identità digitale ricca, connessa con infinite altre identità "virtuali", fosse presupposto di un'identità "reale" compiuta. Perché? «Non è molto diverso dal sentirsi parte di una nazione, una religione o una squadra di calcio: il sentimento di appartenenza è fatto da documenti e dalla condivisione di testi, dalla Costituzione alla Bibbia alla "Gazzetta dello sport". I contatti sul web sono il naturale prolungamento di un elemento di costituzione dell'identità molto tradizionale: l'iscriversi a qualcosa, sia essa una lega per la protezione animali o una società segreta, una biblioteca comunale o un comitato per la tutela dell'ambiente». Lei parla di "ontologia dell'attualità". Per me i social networks incarnano lo spirito del tempo: un'"epoca della scienza e della tecnica" in cui noi "siamo" il nostro cellulare o il nostro pc, il nostro profilo Facebook o Twitter. Questi, lungi da "alienare", sono anzi "gli avvicinanti" per eccellenza: un nuovo "conosci te stesso" che ci fa riappropriare di noi stessi e degli altri. Possiamo dire "Facebook, ergo sum", "Social, ergo sum"? «Vero. Ma, se anziché "Social, ergo sum" si dicesse "l'uomo è un animale politico", sarebbe facile capire che quanto accade oggi è in continuità profonda col passato. Più che un'alienazione o una degenerazione, come sostengono gli apocalittici, l'esplosione dei social networks rivela un'essenza dello stare assieme degli esseri umani: che peraltro - prendendo le debite distanze dagli integrati e gli entusiasti del web - non significa che il mondo vada verso il meglio o che questo sia il paradiso in terra». Oggi "tutto è scritto": "tutto è per sempre". Un'eternità che, in digitale, va ben oltre la vita "reale", con profili vivissimi di persone non più su questa terra. "Filosofia del web" è anche "filosofia della morte", non come lapide ma vita perenne nelle infinite connessioni della rete? «Vita perenne non saprei. Se scrivo qualcosa sul web, non è diverso, quanto a vitalità, che se scrivessi su carta o su pietra. Se sono morto resto morto. Anzi, le cose scritte sulla pietra possono attraversare i millenni, ma non sappiamo quanto possa durare ciò che è scritto sul web: magari poco più di quanto scritto sulla sabbia. In Documentalità "tutto è per sempre" indica solo una condizione ideale: quando tutto o quasi si registra, allora parrebbe che tutto sia per sempre. Ma quanto ciò possa durare è da vedersi e, per la certezza che duri quanto le piramidi, ce ne vorrà di tempo».

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