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Marinetti, lo scrittore che non amava scrivere

Filippo Tommaso Marinetti

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{{IMG_SX}}Marinetti non è il solo, nel Novecento, a compiere e a promuovere reazioni e alternative ai prodotti artistici e letterari del pensiero sequenziale. Ma è colui che, per primo irrompe, sulla scena artistico-letteraria con il ruolo di protagonista. Non è un intellettuale isolato. Nemmeno, però, è l'esponente di una cerchia, bensì è il capo di un movimento che attraverserà varie stagioni, ma durerà trentacinque anni e, accettato o respinto, non potrà essere ignorato. È una personalità spettacolare. «Parla Marinetti». Questo era il richiamo delle adunate futuriste. Nella parola parlata egli dava il meglio di sé. Poteva stabilire una comunicazione con gli ascoltatori. Poteva stare ben immerso nel tempo di quel giorno, di quel momento. Poteva, volendo, uscire dal tema, tornarci dentro dopo una digressione e procedere. Borges era dispiaciuto di non essere un campione dell'oralità: «El universo es fluido y cambiante, el lenguaje rigido». Marinetti, invece, non si dava questa pena. «Monsieur Marinetti parle avec une verve et un bagout vraiment méridionaux» - scrisse il poeta e critico Franz Hellens commentando sulla rivista «L'art moderne» una conferenza ascoltata a Bruxelles nella Galleria Giroux nel giugno 1912. E voleva dire, Hellens, quel che in seguito parecchi altri avrebbero detto riguardo al modo come parlava Marinetti (se, beninteso, non s'impegnava nella declamazione, che era un distinto capitolo della sua eloquenza). Voleva dire, cioè, che Marinetti rivolgendosi al pubblico improvvisava una sua retorica, cogliendo l'atmosfera, provandosi a catturare la simpatia degli ascoltatori (...). Marinetti scrisse molto, ma molto dettò. Poi, salvo che nelle lettere più correnti e in pagine di poca o nessuna rilevanza, apportava correzioni e aggiustamenti. Ai suoi tempi, dettare, ed anche dettare testi di un certo impegno, era una modalità creativa molto più diffusa di oggi . La principessa Colonna Caetani, l'ultimo amore di Boccioni, in una lettera dell'estate 1916 dice all'artista che sarebbe felice di accogliere un suo dettato. Più o meno il senso del suo sentimento è questo: «Come sarebbe bello: io seduta alla scrivania, e voi che mi dettate». L'amava e perciò desiderava sollevarlo dalla fatica di scrivere. Così, Marinetti molto dettò. Senza dire delle migliaia di lettere inviate ai futuristi, dettò anche altre opere, e persino manifesti. Io posseggo una copia de «L'alcova d'acciaio», del 1919, con una dedica autografa di Marinetti al futurista Enrico Santamaria, «che vide nascere questa Vittorio Veneto poetica e subito baciò colla penna». Infatti, Santamaria scrisse sotto dettatura buona parte del romanzo, a Genova: e ne riferii le circostanze nella mia biografia del poeta, pubblicata nel 1990. Ma a elencare tutte le opere dettate da Marinetti, e tutti gl'infiniti fogli e foglietti, non si finirebbe più. Basti ricordare - per dire dei testi di pronta divulgazione - il «Manifesto agli Studenti d'Italia e del Mondo», che dettò al futurista Buccafusca in un rifugio di montagna e che fu pubblicato sulla Gazzetta del Popolo del 19 gennaio 1938. L'ultima opera, «L'aeropoema di Gesù» (la cui pubblicazione postuma dobbiamo a Claudia Salaris) fu dettata in gran parte a un'infermiera che lo assisteva a Venezia nel 1943; e l'ultima poesia, «Il quarto d'ora di poesia della Decima Mas», alla moglie Benedetta, la cui grafia è forse la più presente tra le carte lasciate dal poeta. (Ma anche la figliuola maggiore, Vittoria, giunta che fu alle scuole superiori, venne messa al lavoro da papà). Insomma, molto del pubblicato di Marinetti è in realtà un parlato, nel quale egli è intervenuto con la penna apportando migliorie. Naturalmente, cancellature e aggiunte, non fanno di un testo raccolto dalla viva voce di un autore un testo "nato scritto", per così dire. Ecco perché, in buona misura, l'opera di Marinetti è un "parlare scritto". Ma perché Marinetti non conobbe (tranne forse che per le poesie giovanili, in francese) la «voluttà dello scrivere» e forse neppure la più comune gioia della scrittura? Nelle Serate futuriste, di Cangiullo, si racconta della faticosa ricopiatura dei «telegrammi cumulativi» che furono inviati ai giornali dopo la rappresentazione dell'opera teatrale «Elettricità», nel 1913 a Palermo. Cangiullo è tra i ricopiatori, ed è stanco. Marinetti se ne accorge e gli dice: «Ti aiuterei anch'io, ma ho una calligrafia orribile. Poi non ho alcuna attitudine allo scrivere. Cosa vuoi? Detto sempre». Non era tutta la verità. I gesuiti di Alessandria d'Egitto, presso i quali aveva studiato fin da bambino pretendevano la "bella scrittura". Egli dunque la possedeva, ma non l'esercitava. Non l'offrì neppure a Benedetto Croce, quando nel 1909 con una lettera perfetta gli chiese un giudizio sul Manifesto di Le Figaro. Qualcuno, su quel foglio diretto al filosofo, sfoggiò un bel corsivo inglese, e lui appose in calce la sua firma nervosa e veloce. Seduto a un tavolo, dinanzi alla carta bianca, con la penna in mano, Marinetti non credeva di poter dare il meglio di sé. Temeva, come altri scrittori, di dover scontare il divario che c'è tra il pensiero e la scrittura. E poi, Marinetti presto divenne presbite: e mai, mi ha raccontato la figlia Vittoria, si rassegnò a comprare degli occhiali. Non c'era in casa una macchina per scrivere. Egli - siamo negli anni Trenta - scriveva con la penna, quando scriveva, stando alquanto lontano dal foglio. E per leggere, se i caratteri non erano almeno di corpo 8, talvolta si valeva di una lente. E, insofferente, borbottava.

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