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Roberta Maresci Israele non è nato dalla Shoah.

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Anchese un intrinseco legame connette ai nostri giorni la catastrofe ebraica del XX secolo allo Stato di Israele, la relazione è di natura politica e non storica, quindi non si tratta di una causalità lineare ed è posteriore al 1948. Ma allora, il mondo arabo è davvero innocente, senza responsabilità rispetto allo sterminio di 6 milioni di persone? E lo Stato di Israele è davvero nato per compensare il popolo ebraico della tragedia della Shoah? E poi, è vero che lo Stato ebraico deve la sua creazione al senso di colpa del mondo occidentale per non aver impedito il genocidio? Domande che trovano risposta nell'ultimo studio dello storico francese, appena sfornato da Utet libreria. Titola «Israele, un nome eterno» e richiama un versetto della Bibbia. Dove il nome eterno è quello che Dio attribuisce agli Eunuchi nel libro di Isaia, quegli uomini condannati a morire senza discendenza e ai quali Dio dona, «meglio che dei figli o delle figlie» “un nome che non morirà mai”. Espressione identica presa in prestito anche da Israele per intitolare il suo memoriale della Shoah del 1953, che si chiama appunto Yad Vashem, dall'unione di Yad (Un monumento, una casa) e Chem (un nome), con l'obiettivo di dare una discendenza a coloro che non possono più averla, tramite il ricordo perenne per coloro che furono privati del diritto di vivere. Tentare di sbrogliare la matassa è quanto di più naturale possa sorgere nelle nostre viscere. Lo suggerisce anche il sottotitolo del libro, “Israele, il sionismo e la distruzione degli ebrei d'Europa”, evocando tre eventi distinti. Ma perché la distruzione sistematica di un intero popolo, fino all'ultimo suo rappresentante, è stata la sorte riservata solo al popolo ebraico? E perché gli Ebrei di oggi possono preservare il loro carattere nazionale senza fare riferimento a questa catastrofe? Vero è che la specificità della Shoah sembra contraddire l'interpretazione tradizionale andando ad rafforzare la «portata universale di questo crimine». Esattamente come lo Stato di Israele e la fede, la Shoah è ormai uno dei maggiori componenti dell'identità ebraica. Bensoussan ha scelto però di complicarsi la vita, volendo mettere a segno l'obiettivo di smontare una serie di dogmi. Si prenda quello che la nazione ebrea sia resuscitata dai carnai e dai crematori. Partendo dall'assunto che “qualunque cronologia esprime un giudizio”, Bensoussan allarga lo sguardo della sua analisi, tracciando un quadro che va dal 1933, avvento del nazismo, fino ai giorni nostri. Il risultato è uno: non soltanto la Shoah non ha “causato” la fondazione dello Stato ebraico, ma – al contrario – ha rischiato di far fallire la nascita stessa di questo progetto. “È falso sostenere che il genocidio abbia avuto come conseguenza il rafforzarsi del sionismo perché è vero, invece, esattamente il contrario: la Shoah ha segnato la disfatta del sionismo, seppur parziale. Un fallimento politico, perché il movimento sionista non riuscì a convincere la maggioranza degli ebrei a raggiungere la Palestina prima che si chiudessero le porte dell'emigrazione in Europa. Fallimento morale, perché nel corso della guerra lo Yishuv, l'insediamento ebraico in Palestina prima della costituzione dello Stato, fu incapace di salvare gli ebrei perseguitati d'Europa. E infine, fallimento demografico, in quanto la Shoah, con le sue spaventose perdite umane, ha minato le basi stesse del progetto sionista, accentuando quella debolezza demografica che ancora oggi pesa nel conflitto arabo-israeliano”. E se lo dice Bensoussan, dobbiamo crederci.

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