Con «Tannhäuser» Wagner iniziò a segnare la Storia
LorenzoTozzi Nonostante nasca dalla contaminazione di due diverse fonti letterarie (Hoffmann e i fratelli Grimm) da cui ha tratto rispettivamente la tenzone poetica dei Minnesänger (cantori d'amore) alla Wartburg e la leggenda dell'impulsivo cantore medioevale sedotto nientemeno che da Venere, il Tannhäuser di un giovane Wagner poco più che trentenne può considerarsi per i temi toccati la quintessenza dell' opera romantica tedesca, superata poi solo dal Tristano, e della poetica wagneriana. È difatti tema ricorrente in Wagner quello della redenzione attraverso il sacrificio di una figura femminile così come quello della contrapposizione tra un amore sensuale (per Venere appunto) ed amore spirituale (la innocente Elisabeth). All'Opera di Roma il capolavoro giovanile di Wagner è giunto, per comprensibili ragioni d'ordine economico, in una non disdicevole confezione fatta-in-casa, ovvero contrassegnata dal riuso delle maestranze interne all'insegna dell'austerity con le scene dipinte di Varamo ed i costumi della Biagiotti. E ben aveva lasciato sperare il fantasioso primo atto, ambientato nella grotta incantata del Venusberg (il nido d'amore), con i video di Rebaudengo e Schnabel dal sapore vagamente liberty ad evocare foreste mobili ed efebici nudi femminili. Più statici e oleografici erano si rivelavano gli atti successivi, in cui la pur esperta regia del navigato Filippo Crivelli, non sempre rende giustizia all' incandescenza dell'argomento, che coinvolge implicitamente, come poi nei Maestri cantori di Norimberga, anche il tema della ispirazione artistica. Apprezzabile nel complesso il cast vocale, con una sorprendente Martina Serafin nei panni della redentrice Elisabeth, una poco sensuale Beatrice Uria Monzon in quelli della troppo algida Venere, un ben disposto Stig Andersen come tormentato Tannhäuser e Mathias Goerne come un Wolfram poco elegante ma davvero eccellente nella celebre aria cantabile del terzo atto.