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«Sveglia neri d'America La battaglia è all'inizio»

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Alnumero 410 della strada oggi intitolata a Martin Luther King sorge la Brown Chapel African Methodist Church. Per ogni afroamericano la chiesa color mattone con le grandi decorazioni bianche di Selma, Alabama, è un simbolo della propria identità, un luogo della memoria collettiva. È da qui che il 7 marzo del 1965 parte la marcia verso Montgomery che vede circa seicento attivisti dei diritti civili sfidare la segregazione razziale andando incontro a manganelli e lacrimogeni della polizia. Gli scontri sono tali da far diventare quel giorno il “Bloody Sunday” (domenica di sangue) degli anni Sessanta, senza il quale i neri non avrebbero spinto il Congresso a ratificare il “Voting Right Act” nell'agosto del 1965. Per Obama la Brown Chapel rappresenta il riscatto dei neri dalla segregazione ovvero il momento di inizio del percorso grazie al quale lui è stato in grado di candidarsi alla Casa Bianca. Di fronte ad una Chiesa non grande ma riempita all'inverosimile, lo dice rendendo omaggio al testimone vivente delle battaglia del reverendo King ovvero John Lewis, l'uomo che era sempre alla sua destra e che dal 1987 rappresenta la Georgia come deputato alla Camera. Ma allorché il pubblico della Brown Chapel freme di emozione ricordando le vittime delle marce degli anni Sessanta, Obama chiede di guardare oltre gli obiettivi finora avuti come meta del riscatto. “Nonostante tutta la sua grandezza, nonostante l'aver liberato il proprio popolo ed aver superato il Mar Rosso, Dio disse a Mosè che il suo lavoro era terminato, vide ma non entrò nella Terra Promessa perché questo era il compito che spettava alla Generazione dei Giosuè”. È per parlare ai “Giosuè” del XXI secolo che Obama è arrivato a Selma, vuole usare un linguaggio nuovo, accompagnarli a raggiungere più ambiziosi obiettivi, completando il processo di “insediamento nella Terra Promessa” ovvero di piena integrazione in America. Per spiegare cosa intende, Obama parla in maniera franca, dura, a tratti irriverente al punto da sembrare spietata verso chi lo ascolta. “Il materialismo da solo non completerà la vostra esistenza” afferma, denunciando l'atteggiamento di chi persegue solo l'acquisto di oggetti come momento di emancipazione. Abbigliamento sportivo, vestiti firmati, tv digitali, gadget elettronici o macchina veloci non sono sufficienti perchè “bisogna pensare agli altri” ovvero “al proprio servizio per il prossimo”, all'impegno nella vita pubblica per rendere migliore la propria nazione. Il messaggio punta a scardinare lo scetticismo che tiene tradizionalmente lontani dalla vita politica la maggioranza degli afroamericani. In troppi non si registrano nelle liste elettorali, non votano, non hanno fiducia nelle istituzioni, si considerano a priori emarginati, impossibilitati a cambiare l'America. A costoro Barack dice che “è arrivato il momento di competere nell'economia globale, non solo con la gente della North Carolina, della Florida o della California ma della Cina e dell'India”. Nella stagione della globalizzazione gli afroamericani rinchiusi nelle loro comunità sono un'anomalia che nuoce alle nuove generazioni. “Abbiamo ancora molto da fare” sottolinea Obama, che spiega le perduranti resistenze come la conseguenza di “ingiustizie che sono avvenute e che ancora esistono” ma che non devono più frenare la piena integrazione. Da qui il compito della “Generazione dei Giosuè”: portare a “completamento la stagione delle lotte contro la segregazione” battendosi per “i diritti economici” al fine da consentire il riscatto sociale a coloro che ancora soffrono le conseguenze delle sofferenze patite dai padri. Pur essendo contrario alla richiesta di riparazioni per la schiavitù Obama ritiene che vi sia un ultimo capitolo “economico” da scrivere, garantendo pari accesso all'educazione, migliore sanità pubblica e possibilità di affermazione alle fasce più povere. È un approccio che rovescia il tradizionale impegno di leader afroamericani come Jesse Jackson e Al Sharpton: se per loro prioritaria è la difesa dei diritti negati ai neri, per Obama invece lo è impegnarsi nella vita pubblica per sanare le ferite economiche nazionali. “Mi batto affinché le scuole siano finanziate adeguatemente, affinché anche chi è nato nei distretti poveri abbia i migliori insegnanti” assicura Obama, chiedendo ai neri di essere al suo fianco lasciandosi alle spalle l'atavico vittimismo. “Se io mi batto per avere scuole migliori abbiamo anche bisogno che i genitori spengano la tv quando i figli tornano a casa, consentendogli di fare i compiti, che vadano a parlare con gli insegnanti per sapere come vanno i figli, che insegnino ai figli che non c'è nulla da vergognarsi nell'essere bravi a scuola, che non chiamino i figli “bianchi” se vanno bene a scuola”. In una Brown Chapel oramai ammutolita, Obama va avanti, senza esitazioni. “Dobbiamo cambiare mentalità, non più dicendo a noi stessi che c'è qualcosa che non possiamo fare ma che c'è qualcosa in cui possiamo riuscire, che abbiamo nelle nostre mani il potere di cambiare le cose”.

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