Il cinema gay fa affari d'oro
Se è vero che l'ambiguità è stato lo specifico caratterizzante delle tematiche dei lavori presenti alla rassegna romana appena conclusa, sarà opportuno ricordare che l'elemento non è nuovo. Il tasso dell'ambiguità, prima ancora che il pubblico sovente piacevolmente disposto a farsi abbindolare sotto l'egida del diverso, colpisce l'immaginario dei registi anch'essi disposti a tutto davanti al padre padrone box office. Molti diventano addirittura irritanti, spregiudicati forse perché quando hanno a che fare con qualcosa di irritante si comportano in modo incoscio ma spesso creativo. Parlare di ambiguità in anni artisticamente difficili poteva essere addirittura rischioso dal punto di vista del successo popolare. Oggi che le maglie della censura si sono allargate si è sviluppata una strategia dell'ambiguità, spesso decisa a tavolino. Bastava poco per decretare equivoca la sessualità di Marlene Dietrich negli anni Trenta, Lana Turner negli anni Quaranta o Lauren Bacall nei Cinquanta. Donne che apparentemente sfuggivano ad ogni classificazione, senza per questo rinunciare al loro status di dive. Oggi il pubblico è sommerso quotidianamente da una ambiguità troppo spesso imparentata alla volgarità, alla assenza totale di talento. L'unica difesa che attua è la scelta, purtroppo non sempre libera da atteggiamenti motivazionali effimeri, se non addirittura evanescenti. Ecco allora la prevalenza dell'ambiguità mercantile, esattoriale, inutilmente scandalistica, passeggera. L'ambiguità mitologica sia su grande che piccolo schermo, quella non morirà mai, visto che è intollerante dei supporti e dei format, purtroppo non esiste più libera in natura.