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Montanelli: "A piazzale Loreto c'ero"

Indro Montanelli

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Indro Montanelli - Qual era il mio stato d'animo nel 1945? Non dissimile da quello di Giovanni Ansaldo, pur nella diversità profonda delle rispettive esperienze. Un misto di gioia, inquietudini, speranze. E disgusti. Il 29 aprile fui testimone, in piazzale Loreto a Milano, del feroce ludibrio cui furono sottoposti a cadaveri di Mussolini e Claretta, assieme a quelli dei gerarchi fucilati a Dongo. Scene da Messico, che avrebbero potuto travolgere anche me, se mai qualcuno m'avesse riconosciuto e magari indicato come "fascista". Rimasi invece confuso tra la folla, un angelo custode mi rese forse invisibile, davanti a quell'indegno spettacolo. Ebbi, una volta di più, conferma della crudele volubilità - specie qui da noi - della folla che, osannato Mussolini solo pochi mesi prima al Teatro Lirico, ora ne vituperava le spoglie (...). Marcello Staglieno - Anche in Svizzera, dove eri riuscito a fuggire scampando a una condanna a morte, non eri stato di certo bene accolto dagli esuli antifascisti... M. – Proprio no. In quella fine 1944 i tempi erano davvero duri, soprattutto in Italia, e capisco che anche i fuoriusciti avessero i nervi a fior di pelle. Mi trattarono con sospetto, qualcuno addirittura si spinse ad accusarmi di «apologia di fascismo». A me, che avevo appena rischiato la pelle, quell'accusa giunse però davvero inaspettata. Poi capii: erano loro che non capivano, non potevano, che noi giovani, da soli, avevamo fatto nascere, dal di dentro del fascismo, un altro antifascismo, ben diverso da quello di quanti erano andati in esilio. S. - Perciò scrivesti Qui non riposano? M. - Voglio fare un passo indietro, soprattutto perché la mia esperienza, pur personalissima (e ci tengo), venne in parte condivisa da molti della mia generazione. (...). Per parlare di quel che provavo nell'immediato secondo dopoguerra non posso che rievocare le mie prime esperienze politiche (...). Io ero approdato giovanissimo al fascismo, proprio quando Mussolini stava facendo cose abbastanza serie, debellando la mafia e il banditismo in Sicilia e in Sardegna, costruendo le «città nuove» con la bonifica delle Paludi Pontine e allestendo una bellissima aviazione. Ma mi piaceva sentirmi controcorrente: e mi laureai con una tesi sullo splendido isolazionismo inglese, esaltandolo e credendomi per questo un eroe. Scrissi nel 1931 il mio primo articolo, Byron e il Cattolicismo, sul «Frontespizio» di Bargellini: pur di farmelo pubblicare mi ero inventato una problematica religiosa, che avrebbe potuto far di me anche un protestante se «Il Frontespizio» fosse stato protestante. Ero animato soltanto da velleità letterarie e mondane. Il mio inserimento nella politica, che fu poi l'inserimento "ideologico" nel fascismo, risale al 1932, grazie a Diano Bricchi, che mi fece leggere «L'Universale», battagliero foglio fiorentino, presentandomi quasi subito a Berto Ricci, che ne era il fondatore e direttore. Grazie agli articoli sull'«Universale», ottenni qualche collaborazione al «Popolo d'Italia». Poi Mussolini, dopo aver riunita a Palazzo Venezia l'intera redazione dell'«Universale» (...), pur definendoci «la punta più avanzata del fascismo» eccetera, finì per sopprimere la rivista. Mi arruolai per la guerra d'Africa, partecipando con patriottico slancio a quell'avventura alla Kipling (...). Ma già nel 1937, nella redazione romana dell'«Omnibus», il primo rotocalco italiano "inventato" e diretto dal mio grande amico Leo Longanesi, non ci misi molto ad accorgermi quanto poco si celasse dietro la retorica del regime. E cominciai a prendere le distanze dalla mia antica bandiera, che alla fine disertai, ma prima che cadesse. Inviato in Spagna dal «Messaggero» nel 1937, con accordi di collaborazione a «Omnibus» e all'«Illustrazione italiana», venni subito rispedito in Italia per «disfattismo». Da testimone oculare avevo osato scrivere che la battaglia di Santader, definita «sanguinosa» dagli altri giornalisti, era stata in realtà «una lunga passeggiata militare con un solo nemico: il caldo». Venni cacciato dal Pnf e radiato dall'albo dei giornalisti. Ad aiutarmi fu Peppino Bottai, che mi mandò a dirigere un piccolo Istituto di cultura, quello di Tallin in Estonia. E grazie a un membro del consiglio direttivo della Federazione della Stampa, il prefetto Piero Parini che tra l'altro lo stesso Ansaldo ricorda nelle sue affascinanti (e a tratti tormentate) pagine di questi Diari ottenni anche l'incarico di lettore di letteratura italiana alle Università di Dorpat e Tartu. Evitato dunque il confino, grazie a Bottai e a Parini, prima di partirmene per l'esilio estone, mi recai a Parigi, per incontrarmi con Pippo Naldi, ex- direttore de «Il Tempo» (e antico amico di Mussolini, perché tra i promotori-finanziatori del «Popolo d'Italia» nel 1914). E gli comunicai di voler fare il fuorouscito. S. - Eri già antifascista? M. - Potrei risponderti con la memorabile battuta che saltò fuori nel 1950 dallo scetticismo di Mario Missiroli: «Il fascismo? All'inizio non ci credevamo, poi fingemmo di crederci, poi forse ci credemmo facendo finta di non crederci e alla fine ne fummo disillusi ma senza più ben sapere, oggi, se ci abbiamo creduto oppure no». In realtà ero un fascista deluso e stanco: la molla del patriottismo, a furia di scattare a vuoto, in me s'era guastata. Lo dissi al vecchio Naldi, esule a Parigi. «Ma lei i fuorusciti li conosce?» lui m'interruppe a bruciapelo. «Cerchi di non vederli, se vuol serbare per loro una qualche stima, e preghi il suo Dio, se ci crede, di non averli mai sul gobbo. Se s'imbranca con loro, il primo regalo che le faranno sarà di denunziarla come spia o agente provocatore...».

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