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Festival, missione Abruzzo

George Clooney con Elisabetta Canalis sul red carpet del Festival Internazionale del Cinema di Roma

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Pioggia di applausi sul tagliatore di teste esperto in licenziamenti Ryan Bingham, mirabilmente interpretato da George Clooney ieri in concorso al Festival di Roma con "Up in the air" (Tra le nuvole) di Jason Reitman. Il regista, che si è ispirato al libro di Walter Kirn - al quale ha dato anche un cameo nel film - aveva già vinto il Marc'Aurelio d'Oro (e poi l'Oscar) con «Juno». Ma stavolta, dirigendo Clooney, Vera Farmiga e Anna Kendrick, Reitman ha superato se stesso realizzando una commedia amara (dal 15 gennaio nei cinema distribuita da Uip), incentrata sul difficile momento che l'America sta vivendo: la crisi economica e i conseguenti licenziamenti. Bravo, simpatico e bello, George Clooney, sul palco dell'Auditorium in jeans, anfibi e giubbotto di pelle, ha scherzato affrontando però con serietà anche i problemi contemporanei. L'attore ha iniziato la conferenza stampa con metà sala vuota, mentre i giornalisti erano bloccati sulle scale dagli addetti alla security. «Ma siete tutti in ritardo?», ha domandato al microfono mentre la Sala Petrassi si riempiva a mano a mano. Clooney è la sua prima volta al Festival di Roma, che effetto le fa? «È una rassegna grandiosa, cosa rara per i festival nati da poco. Sono fiero di essere stato scelto per il concorso con questa opera di Reitman». Il film parla della crisi americana: come e quando ne uscirete fuori? «La crisi è mondiale, non solo americana. È la grande preoccupazione del nostro Paese, gli eccessi sono stati ignorati e ci sono tornati indietro come un boomerang. Detroit e il Michigan sono tra i Paesi più colpiti dalla disoccupazione, che in Usa ha superato il milione di persone, lì abbiamo visto situazioni veramente drammatiche». Lei è mai stato licenziato? «Prima di fare l'attore vendevo polizze porta a porta, ho fatto anche il venditore di scarpe da donna e sono stato licenziato più volte, ma non avevo una famiglia da sostenere e la cosa non mi preoccupava più di tanto». Che ne pensa delle chiacchiere sulla sua presunta omosessualità?  «Sono figlio di un giornalista televisivo, so bene quanto ai media interessi il gossip e, per questo, spesso voi giornalisti siete costretti a fare domande stupide. Ma a tutto ci deve essere un limite». Lei vive da anni in una villa a Como, le piacerebbe diventare primo ministro in Italia? «Devo ancora capire bene cosa accade nella vostra politica visto che ormai sto spesso in Italia. Ma anche se volessi non potrei: per diventare premier dovrei essere nato sul territorio italiano». Cosa pensa del premio Nobel dato a Obama?  «L'ho sostenuto fin dall'inizio e sono fiero di essere in un Paese che lo ha trovato e poi eletto. Spero che il premio Nobel lo aiuti per la sua missione di pace». Lei sta lavorando sul set di «The American» di Corbijn, in Abruzzo, dove peraltro era già stato a luglio: come vede il post terremoto? «Sto lavorando a Sulmona a fianco di Violante Placido, un'attrice straordinaria. Sulmona per fortuna non ha subìto danni. Però a luglio per il G8 sono stato a L'Aquila, ho visto che c'era e c'è un impegno grandioso per aiutare le aree devastate dal terremoto. Ma so pure come funzionano queste cose: all'inizio tutti si danno da fare, aiutano per ridare le case ai terremotati, ma quando cala l'attenzione dei media, calano anche i finanziamenti: è già accaduto a New Orleans dopo l'uragano Kathrina. La nostra idea di girare un film in Abruzzo è stata un modo per tenere accesi i riflettori su quel disastro».

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