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Karl Popper

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Dal25 aprile 1946 al 17 novembre dello stesso anno, Carnap (celebre matematico che insegnò a Vienna e negli Usa, n.d.r.) torna sulla questione “socialismo contro capitalismo”: «Ho letto con grandissimo interesse i suoi articoli sullo storicismo. E ora li faccio circolare fra gli amici che sono interessati a questi problemi. Tuttavia, da questi articoli, più che dai libri, non riesco a capire chiaramente la sua posizione su un punto che m'interessa moltissimo: ossia se o in quale misura lei si consideri ancora un socialista. Da alcuni passi dei suoi articoli, sembrerebbe che lei abbia abbandonato il socialismo, ma non è affatto chiaro. Nella sua lettera parla della speranza per una comune base di discussione per socialisti e liberali. A quale dei due gruppi lei appartiene?». Questa è la domanda di fondo che Carnap pone a Popper, mentre gli fa sapere di aver incontrato Hayek a Chicago: «poiché non conoscevo il suo libro (La via della schiavitù), non ho parlato con lui direttamente di questi problemi, ma gli ho chiesto personalmente di lei e della sua posizione politica. È sembrato piuttosto sorpreso di sapere che lei è stato un socialdemocratico a Vienna; non sembrava credere che ora Lei si possa considerare un socialista. Naturalmente, mi rendo conto che lei potrebbe trovare difficile descrivere la Sua posizione in maniera adeguata in termini di un concetto inesatto come quello di “socialismo”. Di conseguenza, mi lasci porre la domanda in questi termini: sarebbe lei d'accordo con me nel credere che sia necessario trasferire almeno la maggior parte dei mezzi di produzione dalle mani private a quelle pubbliche? Io penso che un tale trasferimento non sia affatto incompatibile con quella che lei chiama “ingegneria sociale”». In realtà, al fine di descrivere una posizione politica «seria e responsabile» Popper - nella risposta a Carnap datata il 6 gennaio del 1947 - dichiara che non gli sembrano adatti termini come “socialismo” e “capitalismo”. Con la maggior parte dei socialisti, Popper afferma di condividere le seguenti idee: (1) C'è bisogno di una perequazione dei redditi di gran lunga maggiore di quanto sia stata realizzata in tutti gli stati che conosco (con la possibile eccezione della Nuova Zelanda). (2) C'è bisogno di esperimenti ragionevolmente coraggiosi, ma critici, nella sfera politica ed economica. (3) Non vedo perché tali esperimenti non potrebbero arrivare fino all'esperimento della “socializzazione dei mezzi di produzione”, a patto che (a) vengano apertamente affrontati i considerevoli e seri pericoli sollevati da tali esperimenti e vengano adottati i mezzi per farvi fronte; (b) venga abbandonata la mistica e ingenua idea che la socializzazione sia una sorta di panacea. (È in questi punti (a) e (b) che mi discosto dalla maggior parte dei socialisti). (4) Credo inoltre, con la maggior parte dei socialisti, che alcuni interessi economici possano intromettersi nella politica in un modo molto pericoloso e che, per porre freno a queste influenze, dovrebbero essere adottati mezzi energici (possibilmente non rinunciando alla socializzazione, se questa si dovesse dimostrare auspicabile). Credo infine nella necessità di fare qualcosa di drastico riguardo ai monopoli. (Nel caso di monopoli che non possono essere smantellati, sono anche fortemente favorevole a una sorta di socializzazione)». Ed ecco il disaccordo di Popper con la maggior parte dei socialisti: «Non credo che esista una panacea in politica. Credo che in un'economia socializzata (a) ci potrebbero essere differenze di reddito maggiori di quelle attuali; (b) ci potrebbe essere uno sfruttamento peggiore di quello attuale, dato che lo sfruttamento equivale a un abuso del potere economico e la socializzazione significa accumulazione di potere economico; (c) ci potrebbe molto facilmente essere un'interferenza nella politica, da parte delle persone economicamente potenti, maggiore di quella attuale; (d) ci potrebbe essere una quantità di controllo del pensiero, da parte delle persone economicamente e politicamente potenti, maggiore di quella attuale». In altri termini, Popper si dichiara convinto che la socializzazione può peggiorare le cose piuttosto che migliorarle; e ciò mentre «pochi socialisti sono sufficientemente critici e distaccati da essere disposti a prendere in considerazione queste possibilità» - possibilità di «pericoli molto reali» e «non solo possibilità astratte». Detto diversamente: «Non sono né a favore della socializzazione né contro. Mi rendo conto che la socializzazione potrebbe migliorare determinate questioni, ma potrebbe anche peggiorarle. Tutto dipende da come si affrontano queste cose. Temo che i socialisti, in generale, non si rendano conto di questi pericoli e quindi affrontino queste cose in un modo che può provocare disastri». Quel che Popper raccomanda a Carnap è che, in ambito politico, si deve essere «meno religiosi e più concreti»: «Il socialismo attuale è per la gran parte un movimento messianico e religioso - il sogno del paradiso sulla terra, una conseguenza dell'effetto stressante della civiltà e del paradiso perduto del tribalismo. Ma ha cose molto buone al suo interno: l'idea che le cose debbano e possano essere migliorate, e l'apertura alla sperimentazione e alla scienza - anche se la disponibilità scientifica ad abbandonare le credenze a cui si è affezionati non viene quasi mai capita dai socialisti. (In generale la loro fede nella scienza non è nient'altro che un ingenuo progressismo o evoluzionismo volgar-darwinista). Proprio questo elemento estetico, utopico e messianico del socialismo è il suo pericolo principale e lo spinge così facilmente in una direzione totalitaria». Riassumendo queste sue considerazioni, Popper esprime l'opinione «che le filosofie politiche del socialismo e del liberalismo che abbiamo ereditato dal XIX secolo siano francamente troppo semplici e troppo ingenue». Ed ecco il punto nodale delle argomentazioni di Popper: «Condivido totalmente (...) le convinzioni dei liberali che la libertà sia la cosa più importante in campo politico. Ma sono convinto che la libertà non possa essere conservata senza migliorare la giustizia distributiva, vale a dire senza che cresca l'uguaglianza economica». Sta qui, dunque, la ragione per cui «dobbiamo abbandonare le credenze dogmatiche e semireligiose in questo campo e dobbiamo provare a raggiungere un atteggiamento più razionale. Cosa, questa, che potrebbe essere condivisa dai liberali e dai socialisti». (...)

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