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La drittata di Roma capoccia Tutti insieme appassionatamente

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«Noantri» non è soltanto il nome della festa di Trastevere, quando i romani scendono per strada con formaggi, fiaschi e salumi e si invitano l'un l'altro a tavola. Noantri non è solo il modo provinciale e compiaciuto di ricondurre il mondo a noi stessi, alla nostra dimensione, al nostro cortile. Noantri è una logica di vita. Applicata anche dalle élite. Il mondo dello spettacolo, in mano a prolifiche dinastie: i De Laurentiis, i Vanzina, i Risi, i Comencini, i Costanzo, i Dapporto, i Sollima, i Tognazzi, i Manfredi (Sordi purtroppo non ha avuto figli e il ramo si è estinto). La politica: la prima volta che entrai in Transatlantico, mi colpi la complicità da circolo della scherma tra comunisti e fascisti, berlusconiani e dipietristi che la sera prima avevo visto litigare in tv e ora si congratulavano per le stoccate inferte e subite. Gli affari: il sistema romano delle concessioni e dei cantieri, degli appalti e della burocrazia resta "una ricotta", come diceva Giovanni Agnelli parafrasando Pasolini. La mondanità, dove gente di spettacolo, di politica e di affari si incrocia, si accoppia, si associa e non si separa mai definitivamente. "Perché escludere se puoi includere?" è il motto della Roma de noantri, messo a fuoco da Roberto D'Agostino che della mondanità romana è arbitro e censore attraverso il sito Dagospia. I luoghi della contaminazione sono molti. Il salotto di Maria Angiolillo a Trinità dei Monti (*). Il salotto di Bruno Vespa a "Porta a porta". Il circolo Aniene di Giovanni Malagò, dove matura la nomina di Paolo Garimberti, vicino di armadietto di Gianni Letta, a presidente della Rai. Le presentazioni dei libri, cui non mancano mai Lella Bertinotti e donna Assunta Almirante, la rossa e la nera che ormai sono diventate amiche e talvolta se ne vanno via insieme. Il ristorante Bolognese di piazza del Popolo, così diverso dal suo omonimo di Milano: stessi arredi, stesso menu, ma a Milano un'unica classe sociale, spesso di estrazione Fininvest, e a Roma un'allegra contaminazione di cinema e letteratura, business e ministeri, ai tavoli fuori Sarkozy in visita con la moglie Carla e la suocera, all'interno Gianni De Michelis a una rimpatriata di socialisti decaduti, al primo piano Bertinotti per una serata mondana, in terrazza il senatore Ciarrapico detto Er Ciarra proprietario dell'adiacente caffè Rosati. Ma il vero sancta sanctorum della Roma de noantri è la tribuna dell'Olimpico. Il cui nume tutelare, quello che conosce tutti e per tutti ha sempre la parola giusta, è Enrico Vanzina, il figlio di Steno, l'autore di sceneggiature geniali e altre dimenticabili, il simbolo di quella commistione di nobiltà e bassezze, di umanità e cialtronerie che fa del popolo romano un unicum cui - esaurita ogni critica - vanno riconosciute qualità rare, a cominciare da quella che salta agli occhi: il meno spiritoso è in grado di spiazzare chiunque con una battuta. Noantri non è un concetto soltanto romano. Se non altro perché l'Italia diventa sempre più romanocentrica, e quindi un po' più romana. Dovendo trovare un candidato da opporre a Berlusconi, il centrosinistra ha messo in campo per due volte il sindaco della capitale: nel 2001 Rutelli, nel 2008 Veltroni. E nel '94 lo stesso Berlusconi, ancora molto milanese - prima della metamorfosi di cui parleremo -, si candidò nel collegio Roma 1, contro Luigi Spaventa, insigne economista figlio d'arte, spazzato via con lo slogan: "Cosa vuole questo Spaventa? Prima vinca due Coppe dei Campioni, poi si confronti con me". La nuova Alitalia punta su Fiumicino anziché su Malpensa. Il nuovo capo di Assolombarda, il rappresentante di 6 mila aziende fulcro dell'economia padana, è un manager pubblico originario di Roma, Alberto Meomartini. Le complesse manovre di avvicinamento all'Expo ricordano più le dispute bizantine del Palazzo capitolino che l'efficienza meneghina. Il maestro Muti, già simbolo della Scala, viene ingaggiato da Alemanno (e Vespa). Persino il Giro d'Italia del centenario non è arrivato a Milano, come da antica tradizione, ma a Roma. La capitale progetta di strappare al Nord la Formula 1. Quanto al raduno nazionale degli alpini, nel 2009 non si è fatto sulle Alpi, ma a Latina. Invano la Lega lamenta che il Papa bergamasco Roncalli parli con l'accento romanesco di Massimo Ghini; se è per questo, nel film tratto dal Partigiano Johnny di Fenoglio il comandante Nord è il Claudio Amendola dei "Cesaroni". E il romanocentrismo della fiction e del cinema fa sì che il romanesco diventi italiano, o comunque lingua franca, per cui a Trento come a Cosenza si dice ormai "buzzicona", "pischello", "sgallettata" (oltre all'ormai universale frocio). I motivi sono tanti. Roma è città vivace. Sempre meno ministeriale, indolente, meridiana, sempre più terziaria, veloce, notturna; non fa più la siesta, e la sera non andrebbe mai a dormire. La deindustrializzazione favorisce una città che industriale non è stata mai, però coltiva da secoli le attività divenute ora motore dello sviluppo econo- mico: l'arte e la bellezza, il turismo e la gastronomia, la comunicazione e la mediazione, insomma il saper vivere. E la crisi economica, la fine dell'illusione "mercatista" come la chiama Tremonti, la necessità di aiuti per imprese e banche rimettono al centro la politica, quindi il Palazzo, quindi Roma. (...) (*) Il libro è andato in stampa prima della scomparsa della signora Angiolillo, avvenuta l'altroieri.

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