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La verità del generale Jaruzelski: "Il comunismo? Mai esistito"

Il generale Jaruzelski

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Il generale Wojciech Jaruzelski, 86 anni compiuti il 6 luglio, è una di quelle figure che non si lasciano definire secondo categorie nette come “buono” o “cattivo”. Era ministro della Difesa della Polonia quando, nel dicembre 1970, l'esercito e la polizia repressero nel sangue la rivolta degli operai di Danzica. Ed era capo del governo e primo segretario del Partito comunista quando, il 13 dicembre 1981, egli stesso decretò lo stato di guerra e tentò di soffocare la pacifica rivoluzione di Solidarnosc e di Lech Walesa. È anche vero, però, come è stato riconosciuto dagli storici indipendenti e dalle commissioni parlamentari polacche, che fu proprio la guerra “polacco jaruzelska” a evitare al paese il destino dell'Ungheria del '56 e della Cecoslovacchia del '68, invase dai carriarmati sovietici. Dal 2001 Jaruzelski è sotto processo per “crimini comunisti”. Generale Jaruzelski, sono passati vent'anni dalla caduta del Muro di Berlino. Come visse quei momenti? Fu indubbiamente la più grande svolta storica del secolo scorso, e quei momenti acquistano una valenza ancora maggiore se guardiamo al cammino difficile, tortuoso, spesso doloroso che ci portò fin lì. Personalmente mi onoro di essere stato coautore, coarchitetto della Tavola rotonda. Dopo le elezioni del giugno 1989 fui nominato presidente e in seguito, nel periodo della transizione, per un anno e mezzo, fino al dicembre 1990, furono avviate le riforme fondamentali, e sotto di esse c'è la mia firma. Furono queste riforme a permettere a quel processo di svolgersi pacificamente. Come giudica oggi l'esperienza storica del socialismo e dell'ideologia comunista? Spesso i giornalisti mi chiedono se sono ancora comunista. Io rispondo che il vero comunismo non c'è mai stato, a parte i kibbutz in Israele. La forma storica che ha assunto in Unione Sovietica è stata una forma brutale, criminale, omicida, realizzata dai capi che si sono susseguiti, Lenin, Stalin, e poi si è estesa ai paesi del blocco, forse non in modo così drammatico. Ma si tratta della deformazione di un'idea in fondo buona, nata non sulle rive del Volga, ma del Reno. Per me adesso è fondamentale ricordare che quando la Polonia si trovò sotto l'occupazione dei nazisti, di una forza genocida, l'unica speranza di liberare il paese era riposta nell'Unione Sovietica. Senza la vittoria dell'Urss forse non si sarebbe arrivati alla sconfitta del nazismo. Lo compresero Churchill e Roosevelt, che in nome del bene supremo, la sconfitta di Hitler, “sacrificarono” anche la Polonia. Un altro protagonista della fine del comunismo fu Giovanni Paolo II. Come furono viste negli ambienti del regime la sua elezione e la sua prima visita in Polonia nel 1979? Da un lato c'era il timore che l'elezione di un Papa polacco destabilizzasse il paese, anche di fronte alla forza della Chiesa polacca. C'era il timore che potesse togliere al partito il suo ruolo guida. Ma allo stesso tempo, in modo più o meno ufficiale, c'era l'orgoglio, la soddisfazione di vedere un polacco sul soglio di Pietro. Lei ha incontrato più volte Giovanni Paolo II, sia in veste ufficiale sia quando non ricopriva più ruoli istituzionali. Come ricorda questi incontri? Ho avuto la fortuna e l'onore di incontrare Giovanni Paolo II ben otto volte. Cercai sempre di presentare al Papa i dettagli concreti della nostra situazione. Mi sembrava che le informazioni che riceveva non fossero troppo precise, per usare un eufemismo. Mi sembrava che mi ascoltasse con interesse e che comprendesse la gravità della situazione. Era un deciso avversario del sistema che io rappresentavo, ed esprimeva con chiarezza la sua visione, il suo giudizio, ma cercava sempre di farlo in modo da non ferirmi. Lei ha detto di essere riuscito a perdonare l'uomo che nel 1994 attentò alla sua vita in forza del perdono del Papa. In che senso ha sperimentato il perdono del Papa? Questa domanda mi permette di tornare ai miei incontri con Giovanni Paolo II da persona non più pubblica, incontri che hanno per me un valore particolare, perché allora il Papa non era tenuto a incontrarmi, ma trovò il tempo per me, “grande peccatore”. Gli incontri “privati” sono stati ben tre e mi sono particolarmente cari. L'ultimo incontro avvenne il 27 novembre 2001, quasi alla vigilia del ventesimo anniversario dell'introduzione dello stato di guerra. In tutti questi incontri ho sperimentato da parte sua il desiderio di comprendermi, di accogliermi.

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