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Pelléas et Mélisande di Debussy Il capolavoro che segnò il '900

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Apre, non solo cronologicamente, il Novecento musicale. Col suo sostrato antiromantico ed antirealista infatti il Pelléas et Mélisande (1902) di Debussy, su un libretto del belga Maeterlinck, schiude le porte a tanto teatro musicale contemporaneo. Nella edizione del Teatro dell'Opera, realizzata in coproduzione col blasonato La Monnaie di Bruxelles, tutto nasce da e intorno alla scultura di Anish Kapoor: una sorta di aerodinamico mestolone rosastro a cui poggiano una scala in ferro ed un ballatoio che non portano da nessuna parte. Come dire che l'elemento scenografico, altrove completamento della visione registica, diventa qui sin da principio condizionante e prioritario. In scena campeggia una struttura avveniristica al contempo leggibile come occhio, caverna, insomma un passepartout che assolve apparentemente da ogni riferimento logistico dell'opera (foresta, caverna sotterranea, mare, luce). La sciagurata storia d'amore tra la bella Mélisande ed il cognato Pélleas perde ogni connotato medioevalizzante e romanticizzante approdando ad una dimensione extratemporale. La musica di Debussy, affidata così alle solerti cure di Gianluigi Gelmetti, torna ad essere determinante con i suoi silenzi, le sue attutite dissonanze, le sue divagazioni extratonali, il superamento di una drammaturgia consequenziale. Sono i motivi simbolo, come nel modello Wagner (si pensi a Tristano) a farla da padrone nella vicenda a tragico fine, incentrata su una donna (al secolo la eccellente Monica Bacelli) divisa tra il desiderio di molti uomini e vittima della irrefrenabilità dell'amore. In questo clima assumono particolari significati le luci cangianti di Jean Kalman e la conseguente regia di Pierre Audi. Accanto alla Bacelli hanno dato buona prova Lafont come pallido Pélleas, Naouri come impetuoso Golaud anche se la scelta dei ruoli gravi (baritono invece di tenore per Pélleas) non giova alla comprensione dell'opera. Pubblico convinto ma sparuto.

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