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Francesco, il santo che indica il futuro

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seguedalla prima Franco Cardini Un Gesù rispetto al quale, nella migliore delle ipotesi, ci nascondiamo dietro il velo della lettura allegorica: chissà che cos'avrà voluto significare… Anche per il santo che più di ogni altro Gli è somigliato, usiamo questa tattica dei due pesi e delle due misure. Il Francesco buono, sereno e caritatevole è quello "vero"; il Francesco ispido è, quanto meno, frutto di leggende "insicure". Spiace di vederlo così privo di pietà nell'episodio della rinunzia ai beni del padre che mai gli aveva negato nulla e che costantemente aveva voluto solo la sua felicità. Ci stupiamo di vederlo negare ai suoi frati anche il conforto della più piccola cosa, minacciare di darli nelle mani di un confratello robusto, il "Pugilatore di Firenze", affermare con un'energia che sembra sfiorare la vanitas che i suoi frati non debbono tenere in alcun conto l'esempio di Benedetto o di Bernardo e guardar soltanto a lui stesso come modello e come esempio. Per troppi, Francesco d'Assisi continua ad essere il "santino" di troppe immagini anche laiche, di troppi films, di troppi sceneggi televisivi: il santo che predica agli uccelli, che ammansisce il lupo, che abbraccia i briganti e perfino il sultano. Non è così. La prima cosa da tener presente della sua indole è la sua concretezza, il suo senso della vita. Non si è per nulla davanti a un eterno ragazzino stupito dinanzi alla gioia dell'amore divino. Basti pensare che la sua scelta di vita, la sua vocazione, matura quando egli ha ormai un buon quarto di secolo, un'età per il XII-XIII secolo tutt'altro che particolarmente giovanile. Il Francesco che dinanzi al crocifisso di San Damiano trova alla fine la sua vocazione nel "restaurare la Chiesa del Cristo", che si fa piccolo piccolo in mezzo alle sollecitazioni del mondo, è un uomo maturo e responsabile che ha collezionato avventure amorose, ha conosciuto il volto insanguinato della guerra, ha gestito per un certo tempo i cospicui beni paterni. Chi sia, ce lo dice egli stesso nel più sorprendente dei suoi scritti, il Testamentum. Sono i lebbrosi ad avergli indicato la strada: essi che gli facevano orrore col loro aspetto tremendo e anche con lo spettacolo della loro impudicizia, della loro avidità, della loro crudeltà poiché, non sentendosi amati, odiavano i sani e detestavano la bellezza della vita, che a loro era negata. Francesco incontra Gesù, e impara a riconoscerLo anche nella più sgraziata delle creature. Vuol vivere nel Signore, con la Chiesa: ma sulle prime nessuno gli suggerisce che cosa fare. Infine, dimentico di tutti i vantaggi della sua vita precedente, dichiara di aver voluto sempre duramente lavorare per guadagnarsi il pane con il sudore della fronte, come qualunque altro peccatore. Conosciamo pochi miracoli di Francesco. Il suo vero grande miracolo sta nella sua limpida, lucida testimonianza del fatto che la perfetta imitazione della vita di Gesù fino all'immedesimazione in Lui è possibile. Il suo è il tempo di una Chiesa ricca, potente, virtuosa ma altera e lontana dai credenti più umili e semplici: una Chiesa che gli eretici, numerosi in quegli anni, accusano di aver travisato e tradito il messaggio del Cristo. Francesco dimostra che la vita evangelica è perfettamente compatibile con il più stretto ossequio alla disciplina ecclesiale. Ancora oggi, i critici e molti devoti scarsamente dotati d'intuizione gli rimproverano di non aver apprezzato tutti gli aspetti della Chiesa ma di non aver parlato con sufficienti chiarezza e coraggio. Poteva mai ad esempio apprezzare la crociata? E allora, perché c'è andato senza contestarla? O l'ha contestata di nascosto? Falsi problemi. Francesco ubbidisce costantemente al papa e alla Chiesa e coglie qualunque occasione per testimoniare la fede. Egli si sente con gioia uno strumento di Dio sulla terra, e la "perfetta letizia" richiede un abbandono totale alla volontà divina. Non ha mai preteso che tutti i cristiani diventassero come lui. Ma, quanto a se stesso e a quanti volontariamente ne seguivano la via, ha chiesto la rinunzia a qualunque tipo di potere: anche della sapienza, ch'è una forma di controllo sugli altri. In tempi come i nostri, di trionfo dell'Ego individuale e della "cultura dell'Avere", la popolarità del suo messaggio - che indica una direzione opposta a quella della Modernità - disorienta e appare frutto di equivoco e d'ipocrisia. Ma, forse, sarà il futuro a dirci fino a che punto il suo insegnamento è indispensabile proprio ai giorni nostri, e perché.

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