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I principi Massimo Lancellotti un po' mecenati un po' editori

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Ilprincipe Carlo Maria Luigi Filippo, Ghisleno, Xavier Massimo Lancellotti, che è stato mio marito per 35 anni, quando parlava della sua millenaria famiglia, mi risparmiava, colto com'era, di informarmi sulle pagine del Gotha, del libro d'oro della nobiltà e dell'enciclopedia. Vi parlo di lui al passato, perché, purtroppo, da ormai quattro anni sta Lassù... Don Carlo Massimo Lancellotti, principe di Prossedi, per vent'anni Ambasciatore del Sovrano Militare Ordine di Malta presso la Repubblica araba d'Egitto; ufficiale della Regia Marina, si distinse ampiamente anche in campo militare. Capitano di Corvetta ebbe una medaglia di bronzo al valor civile, per aver disarmato, il 25 dicembre 1947, uno squilibrato penetrato nell'Ambasciata d'Italia in Svezia che voleva uccidere l'Ambasciatore. Alcune onorificenze potete vederle (...un po' anticipate) nel suo ritratto giovanile. Ne mancava qualcuna e Don Carlo chiese al pittore Cruciani di aggiungerle sul quadro. «Ma Eccellenza - si ribellò l'artista - dove gliele devo dipingere 'ste medaglie, sulla schiena...?». Mio marito parlava correttamente il francese, l'inglese, lo spagnolo, il tedesco, (compresi i dialetti teutonici). Ma la lingua che parlava, per me, più armoniosamente era la lingua romana, non il cosiddetto romanesco, attenzione, un aggettivo buono solo per certi carciofi primaverili, ma un italiano perfetto appena addolcito da una preziosa cadenza capitolina, che era propria dei signori e del popolo di una volta, un dialetto quirita oggi in via di estinzione. Aveva anche un suo personalissimo modo di indicarmi gli itinerari romani perché anziché dirmi il nome delle strade e dove erano le fermate dei bus, mi diceva quello dei palazzi. Per esempio: «Vuoi arrivare da piazza Venezia fino a casa a piazza Navona? Facile: parti da palazzo Odescalchi, arrivi a palazzo Bonaparte, quello dove abitò la mamma di Napoleone, costeggia il Corso fino a palazzo Massimo alle Colonne, non palazzo Massimo all'Ara Coeli, gira a destra per via della Cuccagna e avrai a sinistra palazzo Doria Pamphili e a destra palazzo Massimo Lancellotti. Sei a casa!». Mio marito era orgoglioso di affermare che era nato e vissuto a palazzo Massimo Lancellotti, a piazza Navona, realizzato da Baldassarre Peruzzi nel XVI secolo, ricco di statue marmoree, come il Carlo Magno che campeggia nel cortile e la famosissima Athena Lancellotti, copia romana di Mirone del II secolo d.C. «Il cognome e il titolo di principe Lancellotti - diceva - fu dato a mio nonno secondogenito figlio di Camillo Vittorio Massimo, nel 1850, da Ottavio Lancellotti il quale, sposato con Giuseppina Massimo e senza figli, non voleva si estinguesse la stirpe. In seguito, nel 1932, mio padre, Don Luigi, riprese il cognome primigenio Massimo. Da cui questo ramo Massimo Lancellotti». In segno di devozione verso lo Stato Pontificio, i Lancellotti come i Massimo facevano parte della cosiddetta nobiltà nera, cioè l'aristocrazia legata al Papato. Filippo Lancellotti, dopo la presa di Roma, chiuse le porte del suo palazzo ai Coronari e le riaprì solo nel 1929, anno della Conciliazione fra Stato e Vaticano. «Prima dell'avvento dei Piemontesi - continua Carlo e giurerei che ha pronunciato Piemontesi con la p minuscola - prima dei giganteschi espropri, le Ville Massimo Lancellotti coprivano ben 60 ettari, intramoenia, e andavano da piazza dei Cinquecento a San Giovanni...». Nel palazzo Lancellotti era custodita da più di un secolo la famosissima statua del Discobolo Lancellotti, una copia romana di Mirone. Il principe ne era molto geloso e per non farlo vedere ai suoi ospiti lo aveva coperto con una tovaglia. Le cronache del tempo narrano che Goethe durante il suo soggiorno a Roma, si travestì per ammirare il Discobolo, ma fu smascherato e preso a calci dai lacchè di casa. Cosa che don Carlo si è sempre rifiutato di riconoscere dicendomi che a casa Massimo Lancellotti, dove abbondano artisti, medici e uomini di cultura (sempre i Massimo ebbero la prima stamperia a Roma fin dal XV secolo e nonno Filippo stampava un giornale, «La Voce della Verità») non si era mai presa a calci la poesia. Nel 1937 il principe Massimo, su impellente richiesta di Hitler, fu costretto a cedergli il Discobolo che fu sistemato dal dittatore nel Museo di Monaco di Baviera. In seguito il nostro ministro dei Beni Culturali, Siviero, fece rientrare la statua in Italia. Oggi si può pubblicamente ammirare nel Museo di Firenze. Ho conosciuto, purtroppo, per poco tempo la sposa di Don Luigi: Marie de Merode dei principi di Grinberghe e Rubemprè, grande signora, il cui zio fu primo Ministro in Belgio. Il principe D'Aremberg, suo cugino, fu presidente in Egitto del Canale di Suez. Per Don Carlo era semplicemente la sua amatissima «Mammà». Un avo di Mammà, Monsignor de Merode, fondò il famoso Istituto de Merode, oggi detto Collegio San Giuseppe, in piazza di Spagna. "Mammà - mi raccontava Carlo - padrona di ben cinque lingue, da piccoli, ci parlava in francese; quando ci seguiva nei compiti, in inglese; ma quando ci doveva rimproverare in algido tedesco...». Purtroppo non ho fatto a tempo a fare la conoscenza di sua Altezza Serenissima, la principessa Nathalie De Croy de Merode, nonna di Don Carlo. Era anche lei una grande dama, abituata, a quei tempi, a farsi vestire dalla cameriera personale. «Quando andavo a trovarla nel castello di Westerloo in Belgio - mi raccontava Don Carlo - raggiungevo il castello in bicicletta con il mio valletto personale che pedalava al seguito. Ma per cena, anche se eravamo solo nonna ed io, mi cambiavo e mi mettevo lo smoking. Una gran signora». E mi spiegava il suo concetto di signorilità: «Un signore ha sempre radici, se non famigliari, morali. Essere un signore è una qualità interiore che non dipende né dal ceto sociale, né dalle condizioni di nascita. É una questione di sensibilità, di modus vivendi, di etica. È una qualità che ti porti dentro tutta la vita e che quando incontri un signore te la trasmette sulla pelle...». Quando Carlo mi conobbe, mi chiese subito «Metz...Metz... per caso è la figlia di Vittorio Metz?» Fu contento della mia risposta affermativa. Fin dai tempi giovanili dell'Accademia di Livorno era un ammiratore di mio padre. Diceva sempre che mio padre era un signore. Non c'era Natale che la famiglia Metz al completo di nipotini, allora piccoli, Ludovica, Flaminia e Filippo, non trascorresse a palazzo Massimo Lancellotti. Una sera, dopo una visita da noi, mio marito volle riaccompagnare mio papà a casa. Mi affacciai alla finestra e li vidi, uno accanto all'altro, che attraversavano piazza Navona fra lo stridio delle rondini che sfrecciavano fra la cupola del Borromini e l'obelisco della fontana dei Quattro Fiumi, illuminato dai colori del sole al tramonto. Li vedevo camminare di schiena, chiacchierando animatamente. Molto eleganti: mio padre con la lobbia e l'ombrello chiuso sul braccio, mio marito più sportivo, con il loden e il berretto all'inglese. Pensai che erano i due signori della mia vita.

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