"L'Unità d'Italia? È tutta da rifare"
Al Lido Mario Monicelli presenterà stasera in anteprima la versione restaurata de «La Grande Guerra» (alle 21 all'Arena di Campo San Polo), che 50 anni fa vinse il Leone d'oro ex aequo con «Il generale Della Rovere» di Rossellini. Al taglio del nastro della 66esima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica, che aprirà ufficialmente domani con il film di Giuseppe Tornatore «Baarìa», sarà presente anche il Direttore artistico, Marco Müller. Mentre giovedì (10.30) al Palazzo del Cinema di Venezia il regista toscano inaugurerà la mostra fotografica che raccoglie una cinquantina di scatti in bianco e nero dei film che hanno fatto la storia del cinema italiano e internazionale (tra il '41 e il '59) dei più grandi registi di tutti i tempi. Monicelli, che effetto le fa rivedere il suo film a Venezia 50 anni dopo? «È passato mezzo secolo, tutto qui. Certo non immaginavo che quel film fosse restaurato per un pubblico, non solo di cinefili, ma di spettatori interessati al tema. Una bella sorpresa». Perché un regista come lei, classe 1915, ha raccontato la «grande guerra» che non ha vissuto direttamente? «In realtà me la ricordo, ero solo un bambino ma vedevo l'andirivieni di mio zio e di mio padre che venivano in licenza con addosso l'odore della guerra, delle divise inzuppate, degli scarponi infangati e delle ciotolacce per il cibo sporche. Tutti citavano aneddoti e storie. Con "La grande guerra", che ho scritto con Luciano Vincenzoni, Age & Scarpelli, ho voluto smontare la retorica del fascismo per raccontare la verità di un esercito di analfabeti, mal nutriti e mal guidati, buttati nelle trincee per anni. Il risultato è scritto nei numeri: migliaia di morti e feriti». Oggi ricorre anche l'anniversario della seconda guerra mondiale, una guerra che invece ha vissuto in prima persona... «Sì, la seconda l'ho fatta per davvero fino al settembre del '43: ero un giovanotto, ero in cavalleria e andai in Jugoslavia. Dovevo sbarcare in Libia, ma alla fine ci andai solo per fare l'aiuto regista di Augusto Genina per un film patriottico e fascista. La seconda guerra mondiale fu peggio dell'altra e l'ho raccontata nella mia ultima opera "Le rose del deserto": avevamo armi di 25 anni prima, non automatiche come quelle dei nemici, ma pesanti come gli scarponi che ci segavano i piedi. Eravamo di nuovo mal nutriti e mal guidati, come sempre». È andato a Viareggio, nella sua città natale, a commemorare le vittime del recente incidente? «Sì, ci sono andato un paio di volte. Una tragedia terribile, una sofferenza inaudita. Viareggio è molto cambiata: l'unica cosa che è rimasta uguale è lo spirito burlesco e canzonatorio del carnevale». Siamo reduci da un'estate rovente per gli autori che hanno manifestato contro i tagli al Fus del governo, poi - in parte - reintegrati: qual è lo stato del cinema italiano? «Tutti i politici se ne sono fregati della cultura e del cinema in particolare, perché è sempre stato critico con il governo. Al contrario di francesi, tedeschi e inglesi, che alla fine hanno un'identità nazionale culturale. Il nostro è un Paese di miserie e sconfitte, non ha un passato glorioso come la Francia. I 150 anni dell'Unità sono ancora tutti da costruire: resiste l'Italia dei Comuni, dei leghisti che vogliono inni e dialetti diversi. La commedia, quella che facevo io, era ricca di ironia ma lanciava messaggi culturali e sociali. Oggi, i cinepanettoni di Aurelio De Laurentiis li vanno a vedere, ma appena usciti dal cinema nessuno li ricorda più, mentre la politica è ridotta a un gossip insensato su festini con belle donne e gay». Lei è del rione Monti, come il presidente Napolitano, vi vedete qualche volta? «Capita spesso. Napolitano è una persona molto perbene, intelligente e simpatica. Lo conosco da quando era un dirigente del Pci. L'ultima volta abbiamo festeggiato il suo compleanno nel rione, tra panini e vino, con gli altri residenti accanto, tra amici e ammiratori». Qual è il segreto per rimanere attivi e sempre in prima linea fino a 95 anni? «Vivo solo, faccio la spesa, mi cucino, leggo, viaggio, insomma vivo, ma con molta calma, e non intendo più fare cinema, almeno da regista».