A Sorrento per grazia ricevuta
Sonoallo specchio, e torno a lei. Ogni mattina infatti il mio rasoio passa almeno due volte sopra una piccola cicatrice, al labbro superiore. Essa è il più visibile souvenir dell'estate 2002, anzi del 26 luglio di quell'anno. Era un venerdì e Sorrento festeggiava come sempre Sant'Anna. Già nelle prime ore c'erano stati - bengh bengh bengh - quei secchi colpi a salve che aprono effimere nuvolette alte nel golfo. Poi, a seguire, i laceranti saluti di sirena che i battelli in arrivo o in partenza s'erano scambiati senza risparmio. «Alle 11.30 - come è rimasto scritto in un verbale - il sottoscritto, in sella alla sua bicicletta, scendeva dal Capo ad andatura sostenuta quando un'auto in manovra gli tagliava imprevedibilmente la strada». Volai sopra il cofano di quella maledetta vettura e caddi rovinosamente, col viso rivolto verso un muro. Accorse gente, mi sentii chiamare, feci per voltare la testa, ma non riuscii. Pensai d'essermi giocata la colonna vertebrale, mi vidi su una sedia a rotelle. Feci passare alcuni istanti, i peggiori della mia vita, e poi riprovai a voltarmi. I muscoli del collo stavolta obbedirono, vidi il volto di mia moglie, disperata, ch'era sopraggiunta anch'ella in bicicletta. Mi sentii miracolato. M'invase allora un'euforia pazzesca. L'avevo scampata! E questa fu poi la scena: risus paschalis di un infortunato che, così combinato com'è, una maschera di sangue, vuole alzarsi per andare a piedi all'ospedale, che tanto è lì vicino, a cento metri o poco più. «A piedi? Ma per l'amor di Dio! Abbiamo chiamato l'ambulanza, lei stia disteso, immobile». Invece, pesto e malmesso, ma felice per grazia ricevuta, il sottoscritto con piccolo seguito raggiunse a piedi l'ospedale. Poi, sul lettino del chirurgo, l'allegria cedette il posto a qualche apprensione. Ma gli fu risposto: «Voi per la sutura al labbro non vi dovete preoccupare. Noi qui, a Sorrento, siamo famosi per l'arte del ricamo». Sono napoletano, conoscevo Sorrento da tanti anni, ma cominciai a frequentarla nell'estate del 1975. Era di luglio anche quella volta. Cercavo un albergo che avesse «la discesa a mare», ma trovai posto soltanto a mezza collina, in un hotel nascosto tra gli ulivi, un'antica residenza di campagna che alzava un'insegna appropriata, «La Badìa». Lì ti svegliava il «chicchirichì» dei galli, la finestra si apriva su tutto quello che si può vedere di Sorrento, e lo sguardo, quando ne era sazio, poteva baciare il Vesuvio e allungarsi costa costa fino a Napoli. In maggioranza forestieri gli ospiti. Signori inglesi o belgi specialmente, tornati lassù per la loro vacanza. E un paio di belle ragazze che andavano via presto, in motocicletta, abbracciate ai fidanzati, giù per il Nastro Verde, verso il mare. Si dice che «a Sorrento si chiamano tutti Gargiulo, tranne quelli che si chiamano Fiorentino». E si chiamava appunto Gargiulo, ingegner Giuseppe Gargiulo, il vecchio padrone di quella severa dimora, ch'era pure padrone delle campagne tutt'intorno, attraversate dalla via Capodimonte. Possedeva altresì due alberghi giù in basso, a picco sul mare, «La Tonnarella» e il «Desireé». Invero, di tutti quei beni s'era liberato a suo tempo - credo con grande sollievo - assegnandoli ai figli Antonino (maitre di fornelli), Carlo (ingegnere) e Silvio (bell'uomo e capitano). La sua passione era l'antiquariato e là nella «Badìa» si era riservato un appartamento al primo piano, che teneva ingombro di marmi, quadri, porcellane, bronzi, stampe, vetri, tarsie sorrentine e di libri d'epoca. Non per niente egli era figlio di Saltovar, alias Silvio Salvatore Gargiulo, un letterato, un verseggiatore, un personaggio assai benestante dei primi del Novecento, conosciuto non soltanto in Costiera. (Portava cappelli smisurati, e giunse a far incidere rime e pensieri nel marmo d'una grande lastra, a pro dei i passanti della «sua» strada). Subito entrammo in confidenza, col vecchio ingegner Gargiulo. Una volta mi regalò una piccola stampa in acciaio, dell'Ottocento. E un'altra volta, forse l'anno dopo, mi donò una bella edizione settecentesca rilegata in cartapecora. Un libro che racconta Vita e virtù della Serva di Dio Giovanna della Ragione, morta nel Casale di Santo Strato, Villa di Posillipo, il 18 novembre 1762. Insomma, la storia d'una vergine contadina le cui «gesta non sono inferiori alle canonizzate, e possono essere di sprone non solo alle Contadine, ma ancora alle Regine». Così scrisse il biografo don Strato de Fonte, posillipino anch'egli, come rivela il nome, e parroco. Il quale, vanitas vanitatum, mise le mani avanti, avvertendo che di nulla sarebbe rimasta memoria: né di Giovanna, né del libro, né tanto meno di lui. Posillipo è il nome della verdeazzurra collina napoletana più cantata, che i greci chiamarono con questo nome per indicare che lì si guariva dal dolore, pure quello attizzato degli affanni immateriali. Anche per i romani fu un luogo sans-souci, di clivi dolcemente digradanti al mare. Le melodie di fine Ottocento e del Novecento ne fecero infine la collina degl'innamorati. Ma nel libro che mi fu donato, la Serva di Dio Giovanna della Ragione, realmente oggi del tutto dimenticata, vive il Settecento posillipino di faticati scenari campagnoli: vigne e frutteti, remoti alla città così vicina, la città splendente del San Carlo e delle Regge. Il libro m'è tutt'ora alla mano, in uno degli scaffali che accolgono un'affettuosa miscellanea di letture ricorrenti e appunto sans-souci: dall'onomastica alla simmetria, dalla malinconia al simbolismo dei colori e dei profumi, da Pulcinella anticipatore degl'illuministi fino ai consigli lasciati dal Cardinale Mazzarino ai politici, tanto per dire. Il vecchio ingegner-connaisseur se ne andò, invece, in un'estate che è già lontana. Egli non s'era mai fatto una ragione del perché io mi ostinassi a sudare in bicicletta tutte le mattine, durante le due solite settimane di luglio. Ma qualche volta - mi hanno detto - accompagnò con sguardo amico le prime pedalate che regalavo alla mia «Colnago» lì nel viale, lasciandomi alle spalle la «Badìa». Come nella canzone, «Torno a Surriento». E una volta, anche con la mia bici da corsa a romper la malìa.