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SUL LAGO TAHOE, di Fernando Eimbcke, con Diego Cataño, Hector Herrera, Daniela Valentine, Messico, 2008. Cinema messicano.

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Comequesto suo secondo film, presentato l'anno scorso a Berlino. Sembra la fuga di un ragazzetto, Juan, da casa sua, dalla madre, dal fratellino, dagli amici. In realtà, lo sapremo alla fine, è la difficile accettazione di un lutto che lo ha colpito all'improvviso, la morte del padre. Si comincia con un incidente, forse voluto; l'auto, guidata da Juan, sbattuta contro un palo. Seguono tentativi di ripararla, andando da un meccanico a un altro, con il risultato che serve un pezzo di ricambio, costoso e non semplice da trovarsi. Adesso la peregrinazione di Juan dall'uno all'altro meccanico, un vecchio, una ragazza madre, un suo intraprendente coetaneo che vorrebbe diventargli amico, ma lui, chiuso, quasi atono, si sottrae a tutti, con l'aria, in apparenza, di pensare solo a come riparare quell'auto. Ottenuto quello scopo, torna a casa, da una madre asserragliata in camera senza vedere nessuno, da un fratellino che gli chiede cosa significhi il termine «condoglianze» detto da tutti quelli che hanno telefonato fino a quel momento. Così, finalmente, Juan scoppia a piangere, conscio del suo lutto e pronto ad accettarlo. Per ricominciare. Una trama sempre volutamente sospesa, intenta a dire altro, pur pensando al tema che non si palesa se non molto di sfondo. Una regia che privilegia l'immobilità, nei gesti, nei ritmi, nelle immagini. La macchina da presa quasi non si muove, i personaggi entrano in scene fisse in cui interagiscono adagio, in termini rigorosamente essenziali. Mentre, per interrompere una scena e passare a un'altra, rinunciando alle dissolvenze classiche, si fanno intervenire dei fondi neri che, spesso, si trasformano in simboli del silenzio: quello di Juan, che oltre a tutto parla pochissimo, quello del suo problema non detto e in attesa di svelarlo solo alludendovi. Certo un esperimento difficile, narrativo e stilistico. Ma si fa seguire con rispetto.

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