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Alle nove del mattino del 20 settembre 1870 i bersaglieri di La Marmora entrano in Roma dalla breccia di Porta Pia.

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Sconfittoa Sedan dalla Prussia di Bismarck, Napoleone III perde il potere. E così viene meno l'ultimo difensore del potere temporale dei papi. Appena l'anno prima Pio IX aveva tenuto a Roma il Concilio Vaticano I che, in articulo mortis, confermò l'avversione alle idee liberali e decretò l'infallibilità papale. Pio IX, si sa, non la prese bene. Si rinchiuse in Vaticano, si considerò prigioniero dello Stato italiano e non accettò la legge delle guarentigie. Con la quale lo Stato italiano concedeva tutta una serie di prerogative al pontefice e regolava i rapporti con la Santa Sede. Pio IX, quando tutto ormai era perduto, avrà rivolto gli occhi all'indietro e ripercorso le tappe di un percorso che va da San Pietro al consolidamento dei domini temporali, dall'affermazione dello Stato della Chiesa al suo sviluppo, dal suo tramonto alla fine dello Stato pontificio e alla nascita della «questione romana». Il Santo Padre sa che tutto è perduto. Ma non si dà per vinto. E parte al contrattacco. Con l'enciclica «Ubi nos» del 1871 ancora una volta sottolinea che il potere spirituale deve andare di pari passo con quello temporale. E poco tempo dopo, nel 1874, attraverso la Curia romana fa divieto ai cattolici di partecipare alle elezioni del nuovo Stato. Nasce così il «non expedit», cioè non è opportuno. E in effetti per diverso tempo i cattolici si estranieranno dalla vita nazionale. Non saranno né eletti né elettori. Dovrà passare un secolo perché Paolo VI dichiari che la quasi simbolica sovranità temporale è «quanta gli basta per essere libero di esercitare la sua missione spirituale». Solo con il trascorrere del tempo, e con l'uscita di scena dei protagonisti sulle due rive del Tevere, sarà possibile rimarginare le ferite. Il «non expedit» così via via si attenua. Anche perché le sinistre, a cominciare dal partito socialista, sono considerate un pericolo. E conclude la sua sofferta esistenza con il Patto Gentiloni, stipulato in occasione delle elezioni politiche del 1913, che impegnava i cattolici a sostenere i candidati liberali contrari a misure anticlericali. Alla vigilia della Grande Guerra viene eletto al soglio pontificio Benedetto XV, non ostile a una riconciliazione con lo Stato italiano. E le «colombe» dei due fronti cominciano a sperare. Nel 1919 all'Hotel Ritz di Parigi, a margine della Conferenza di Pace di Versailles, si registra un fitto scambio di vedute tra il nunzio, monsignor Bonaventura Cerretti, e Vittorio Emanuele Orlando, il presidente della Vittoria. Sia pure, come si dirà di lì a poco, di una Vittoria mutilata. Giurista tra i più autorevoli, Orlando non è pregiudizialmente contrario a una cessione territoriale nei riguardi della Santa Sede. Consapevole com'è dell'importanza storica di un accordo con la Chiesa. In fondo, sostenne, «anche limitato sarà sempre uno Stato, in quella guisa che tanto l'infusorio quanto l'elefante sono esseri viventi». Ma i tempi, con ogni evidenza, non erano ancora maturi. Si dovrà attendere ancora un decennio, e precisamente l'11 febbraio 1929, per la sottoscrizione dei Patti lateranensi tra il cardinale Pietro Gasparri e il cavaliere Benito Mussolini. Dopo circa trenta mesi di trattative riservate. Questi Patti si articolano in un Trattato, con quattro allegati, e in un Concordato. Quest'ultimo definisce le relazioni tra la Chiesa e lo Stato italiano. Mentre il Trattato riconosce la religione cattolica, apostolica e romana come la sola religione dello Stato, l'indipendenza e la sovranità della Santa Sede, la persona del pontefice come sacra e inviolabile. A somiglianza di quanto lo Statuto albertino riconosceva al sovrano. Ma soprattutto il Trattato dà vita allo Stato della Città del Vaticano. Così denominato perché, al tempo degli etruschi e dei primi romani, questo territorio era destinato a riti, vaticinii, volti a interrogare il futuro. Uno Stato creato proprio «per assicurare alla Santa Sede l'assoluta e visibile indipendenza, garantirle una sovranità indiscutibile pur nel campo internazionale» e conferirle «la piena sovranità e l'esclusiva e assoluta potestà e giurisdizione sovrana» sulla Città del Vaticano. Molte delle cose fin qui scritte non sono farina del nostro sacco. A fornircele è un giovane e acuto costituzionalista, Francesco Clementi, in un aureo libretto («Città del Vaticano», il Mulino, pp. 141. 11 euro) compreso nella benemerita collana del Mulino «Si governano così». Una collana, curata da Carlo Fusaro, che si propone di illustrare a un pubblico più vasto della ristretta cerchia degli addetti ai lavori gli ordinamenti costituzionali dei vari Paesi. E a Clementi va dato atto di avercela messa tutta. Perché lo Stato della Città del Vaticano presenta tali e tante anomalie che il rischio è quello di perdere la bussola. Per cominciare, lo Stato abbraccia appena 44 ettari. È poco più grande - rileva Clementi, da buon sportivo - di un campo da golf. Un minuscolo territorio a forma di trapezio che appare tanto noto quanto ignoto, confuso com'è con la Santa Sede, simbolo del cattolicesimo. Un piccolo grande Stato, insomma. Se il territorio è minuscolo, altrettanto minuscola è la popolazione. I cittadini vaticani sono appena 565, mentre i residenti non cittadini ammontano - si fa per dire - a 226. La forma di governo dello Stato è una monarchia assoluta che, in forza dell'eredità dello Stato pontificio, ha carattere elettivo: il quorum oggi è dei due terzi dei cardinali. E, almeno in teoria, non è prevista alcuna separazione dei poteri. Difatti il pontefice ha «la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario». Mentre le fonti del diritto sono un bel garbuglio. Per la cronaca, le fondamenta di questo Stato sui generis sono state gettate poco dopo i Patti lateranensi da due personalità di spicco: da Francesco Pacelli, fratello di Pio XII, e dal grande giurista israelita Federico Cammeo, espulso dall'Università a seguito delle infami leggi razziali, e la cui famiglia, deportata in Germania, trovò la morte in un campo di sterminio.

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