Il sole del '43 sciolse l'incubo nero
Cominciòmale, finì peggio. In mezzo sciorinò tali e tante sciagure che a qualcuno, verificate le date sul calendario, venne in mente di riesumare una funebre profezia medievale che, più o meno affermava (cito a memoria): "Cum Marcus Paschabit, Antonius Pentecostabil et Johannes Corpus dabit, totus mundus lacrimabit", vale a dire che quando San Marco cadrà a Pasqua, Sant'Antonio a Pentecoste e San Giovanni per il Corpus Domini tutto il mondo piangerà". Più passavano i mesi e più attorno c'erano motivi per piangere. A luglio, Roma vide addirittura bombardato il quartiere di San Lorenzo, con Pio XII, uscito dal Vaticano, subito chino sui feriti, in mezzo alle macerie. Proprio in quel periodo, però, una data memorabile e propizia, quel 25 luglio che segnò la caduta del fascismo. L'annuncio dato da una voce anziana dai microfoni dell'EIAR a via Asiago, quella del Maresciallo Badoglio, ancora legato a formule protocollari: "Sua Maestà il re Imperatore"..."il cavaliere Benito Mussolini", la sostanza comunque, secca e concisa, erano delle dimissioni, chieste e ottenute, che mettevano fine a vent'anni di dittatura. Esplosioni di gioia dappertutto, quasi a salutare il risveglio da un lungo incubo nero. Tutti in strada, festanti, pronti a gridare "evviva" e ad abbracciarsi. Mi ritrovai tra quella folla euforica a largo Ponchielli, vicino all'edificio in cui, allora, c'erano la sede e le vetrine dell'Unione Militare. In cima, un busto enorme di Mussolini che, affacciandosi da varie finestre, un gruppo di animosi, ingabbiandolo con delle corde, fece precipitare in strada, sollevando non solo calcinacci e polvere, ma nuove grida di giubilo e nuovi incitamenti. Tutti insieme, tutti felici, tutti d'accordo. Con un sentimento di condivisione che non avevo mai provato, specie quando la radio mi trasmetteva le grida roboanti di quei tanti precettati che accorrevano in camicia nera a Piazza Venezia per diventare la "folla oceanica" decantata dalla propaganda. La stessa condivisione, finalmente spontanea, subito dopo, quando, inforcata di nuovo la bicicletta, mi slanciai felice attraverso le altre vie di Roma, fino a poco prima immerse nel solito sonnacchioso silenzio estivo poi, di colpo, subito riecheggianti delle grida di una folla presto straripante, senza una meta fissa, solo per la soddisfazione di star lì tutti insieme, uniti da un sentimento comune, da una gioia che, dopo quei tanti giorni tristi, nessuno più si aspettava di poter provare. Risalii il Corso, fino a piazza Venezia - l'unico spazio vuoto e sinistro - e mi arrampicai per la salita verso il Quirinale mentre alla gente a piedi si veniva aggiungendo, altrettanto numerosa, quella in automobile annunciata, da echi rumorosi e insistenti di clacson, quasi a voler dire, con quel suono, tutto quello che gli altri, a piedi, dicevano con i loro evviva. E intorno così tante bandiere che mi domandavo dove le tenessero prima dato che, di solito, ad eccezione di quelle esposte a comando, in giro non se ne vedevano molte e per nessuna circostanza. A Magnanapoli feci una sosta: per andare a trovare Sesa Tatò che, con suo fratello Franco, avrei ritrovato più tardi, fiera militante, in quella Sinistra Cristiana di Adriano Ossicini e Franco Rodano cui sarei stato in seguito felice di associarmi. Avevamo una salda fiducia reciproca e questo ci aveva permesso di commentare sempre senza cautele i fatti cupi della politica di quegli anni. Mi disse che Franco si stava preparando all'azione, sapendo che, adesso più che mai, ce ne sarebbe stato bisogno, e lasciandola mi venne in mente, dopo quell'incontro nel clima già del futuro impegno, di andare a verificare, nella libreria Rossetti di via Veneto, se avrei trovato riunito di nuovo quel gruppo di intellettuali che lì quasi quotidianamente si davano convegno e cui io, pur giovanissimo, avevo potuto aggiungermi perché due anni prima avevo cominciato a frequentare Silvio d'Amico e la sua famiglia, lì in mezzo ben rappresentati. C'erano difatti quasi tutti, a cominciare da Cardarelli che, nonostante la leggenda alle sue spalle, non indossava anche in estate i suoi abituali impermeabili. C'erano Fedele d'Amico, figlio di Silvio, che aveva sposato Suso, figlia di Emilio Cecchi, Bartoli, che aveva sposato Ditta, l'altra figlia di Cecchi, e Tallarico, Onorato, Flaiano, di cui avrei finito per seguire da vicino tutte le carriere, specie se nell'ambito del cinema. Conversari fitti, scambi di notizie, informazioni dettagliate su come, il giorno prima, si era svolta a Palazzo Venezia, la riunione che aveva messo alle corde Mussolini. Mi è sempre rimasta in mente la battuta di Flaiano: "Avevamo tanto sperato nel Negus, adesso invece ci tocca dir grazie a Bottai...". Tornato a casa, sentii mia madre che chiedeva alla cuoca di preparare la torta al limone, un dolce, invece, esclusivo delle nostre domeniche, ma mio padre non c'era: ufficiale dei Carabinieri Reali, era andato al Comando Generale a via XXIV Maggio per indicazioni precise. Tornò tardi (avevamo già mangiato la torta) ed era piuttosto scuro in volto. "Tutto bene - disse subito - tutti felici di festeggiare, ma adesso tutti pronti a combattere di nuovo". "Ti riferisci alla 'guerra continua' di Badoglio?" gli domandai. "Sì, ma i nemici adesso, lo vedremo subito, saranno i tedeschi e i fascisti, e sarà anche peggio". Difatti arrivò l'8 settembre, Silvio d'Amico fu arrestato (dal carcere, alla moglie, mandò un messaggio che diceva "Regina Coeli laetare alleluja") e a Porta San Paolo esplosero i primi scontri sanguinosi fra i nostri militari e i tedeschi. Con il risultato, però che, scoperti i nemici veri, la condivisione del 25 luglio tornò a farsi sentire, anche più forte. O in armi, a viso aperto, da Roma a tutto il Nord, o tra le fila di quei movimenti clandestini (io ne feci subito parte) che cominciavano a ramificarsi in tutte le città, presto strettamente collegati, con mezzi di fortuna ma sempre solidi, ai Partigiani sui monti e, via radio, agli Alleati anglo-americani sui fronti intorno: sostenuti con i sabotaggi interni e le azioni di guerra e di guerriglia all'esterno. In attesa dell'altra grande condivisione, plebiscitaria e popolare, che anche oggi unisce i migliori: la Liberazione del 25 aprile.